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Vi spiego i benefici della nuova Costituzione. Parla il prof. Clementi

Nonostante un Parlamento altamente diviso e frammentato, figlio del risultato elettorale del 2013, fatto di vinti più che di vincitori, Renzi è riuscito a costruire una maggioranza rispettando la procedura dell’articolo 138 della Costituzione e a far approvare una riforma costituzionale che migliorerà la qualità della democrazia in Italia”. Il costituzionalista Francesco Clementi non ha dubbi: con l’ultimo sì – martedì scorso alla Camera – è stato varato un testo destinato a portare il nostro Paese allo stesso livello delle “migliori liberal-democrazie europee”. Clementi – che insegna Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia e alla School of Government della Luiss e che nel 2013 ha fatto parte della Commissione dei saggi istituita da Giorgio Napolitano ed Enrico Letta – sottolinea, in primo luogo, il metodo scelto per mandare in porto la riforma: “Si è pienamente rispettata la procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo 138 della Costituzione, senza scorciatoie, essendo da sempre correttamente quella l’unica vera strada obbligata da percorrere.

Professore, esistevano strade alternative per arrivare all’approvazione definitiva?

Negli ultimi decenni non sono mancati i tentativi di aggirare la norma costituzionale, di eluderla di fronte alla fatica e ai rischi politici che quel lungo e complesso percorso prevede. Solo attraverso quella strada obbligata – che appunto costringe a maggioranze larghe e a passaggi parlamentari ripetuti e pure rigidamente distanti tra loro – si poteva trovare la forza di superare le rilevanti e gravi difficoltà politiche emerse dopo le elezioni del 2013, tali da costringere le Camere a rieleggere, prima volta nella storia del nostro Paese, il Presidente della Repubblica uscente.

C’è già un vincitore?

Considerati il quadro di contesto e le premesse politiche di partenza, questo è senza dubbio un successo. Il merito è certamente del Parlamento e dei parlamentari che l’hanno voluta, a partire dai senatori. Evidentemente, si tratta di un successo anche per il Governo, il quale è nato – è bene ricordarlo – proprio per affrontare con la dovuta risolutezza la sfida delle riforme mettendoci la faccia. Una scelta di trasparente responsabilità, fatta senza cercare alibi e senza voler “galleggiare” sopra le riforme per rimanere in carica, come si è invece visto molte volte nella storia di questo Paese.

C’è però un pezzo del Parlamento che contesta duramente la riforma.

La sesta e ultima votazione di martedì scorso ha dimostrato che si possono fare le riforme rispettando riga per riga la Costituzione, anche se ciò costa fatica, comporta rischi e accende polemiche e dibattiti nel Paese, provocando conseguenze politiche anche rilevanti. Le cose fatte bene, in genere, cominciano per bene. Questa, a me pare, un ottimo esempio.

C’è però chi accusa il governo di aver fatto questa riforma a colpi di maggioranza. Come si risponde a questa critica?

Considerate le premesse, torno a dire che la strada era obbligata: si sono rispettate, punto per punto, le maggioranze previste dalla Costituzione per la sua riforma, quelle indicate dal Costituente. Lo ribadisco: non si è elusa la strada, la si è percorsa a viso aperto. E questo è un fatto davvero da non sottovalutare nel tempo della crisi della rappresentanza politico-parlamentare. Capisco che nelle sei votazioni sono emerse maggioranze disomogenee tra loro, frutto dei movimenti della politica e delle difficoltà di una rappresentanza parlamentare ancora – in non pochi casi – in cerca d’identità e di nuovi leaders. Ma ciò, nel rispetto formale del dettato costituzionale, conferma l’eccezionalità e il valore – vorrei dire – storico del voto. Per il nostro Paese si dischiude la possibilità di approvare quello che, altrove, è regola democratica da sempre.

Perché – a suo modo di vedere – questa riforma ha valore storico?

Per rendersene conto basta rileggere due discorsi chiave di questi ultimi tre anni. Il primo l’ha pronunciato Giorgio Napolitano – il 22 aprile 2013 di fronte alle Camere riunite il giorno del suo secondo insediamento – a memento delle ragioni della prosecuzione della legislatura proprio in funzione di riforme necessarie e non più eludibili. Più di recente – per sottolineare gli effetti di una eventuale e mancata conclusione della transizione istituzionale italiana – il discorso che il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha fatto il 21 dicembre scorso alle alte cariche dello Stato: in esso, il Presidente della Repubblica rilevava come “il senso di incompiutezza rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere”. Mi auguro che ogni dibattito, da qui ad ottobre, avrà come premessa almeno la lettura di questi due testi.

Lei ha detto che questa riforma migliorerà la qualità della democrazia. Per quale motivo?

Perché affronta i principali problemi che da decenni vengono sottolineati da ogni partito o schieramento politico rispetto all’inadeguatezza delle nostre istituzioni di fronte al tempo che cambia.

Di quali problemi sta parlando?

Il primo è il bicameralismo paritario che tutto è tranne che perfetto. Grazie a questa riforma – come accade in tutti i bicameralismi delle moderne democrazie – ci sarà una Camera che rappresenterà l’indirizzo politico, ossia il circuito della forma di governo in senso stretto, e l’altra Camera – il Senato – che rappresenterà invece la morfologia istituzionale del Paese, ossia la sua forma di Stato. I problemi che saranno risolti, però, sono molteplici.

Quali sono?

Ci sarà un miglioramento della qualità della legislazione, tanto nel suo procedimento, quanto nelle sue fonti: dalla decretazione d’urgenza ai referendum propositivi e di indirizzo che entrano per la prima volta nel nostro ordinamento. E, ancora, entrerà in Costituzione lo statuto delle opposizioni, a connotare ulteriormente la fine dell’alternativa ideologica in favore dell’alternanza programmatica, regolamentata e trasparentemente garantita, lungo l’asse maggioranza/opposizione. Ciò inoltre consentirà di dare un volto preciso a quello che si deve considerare a buon diritto come un “governo in attesa”. Per non parlare poi, della semplificazione istituzionale, dal Cnel che sparisce alle province che vengono de-costituzionalizzate. O del nuovo rapporto – più responsabile anche sul fronte dell’autonomia di spesa – tra lo Stato e le Regioni. Infine, come ultima annotazione, segnalo che per la prima volta entra nella nostra Costituzione il termine trasparenza. Un fatto che non sarà improduttivo di effetti.

(prima parte; la seconda parte della conversazione sarà pubblica nei prossimi giorni)

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