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Perché Zagrebelsky sbaglia sulla riforma della Costituzione. Parla il prof. Ceccanti

Abbiamo di fronte cinque mesi abbondanti per fare un lavoro serio di educazione civica in modo tale che i cittadini arrivino informati sulle novità introdotte con la riforma della Costituzione approvata dal Parlamento“. Stefano Ceccanti insegna Diritto pubblico comparato all’università La Sapienza di Roma. Senatore del Partito democratico nella scorsa legislatura, è uno dei costituzionalisti che ha contribuito a scrivere la riforma varata in via definitiva dalla Camera lo scorso 12 aprile. Oggi è in prima linea nel sostenere le ragioni del sì al referendum confermativo che si svolgerà ad ottobre: sul tema ha appena pubblicato un libro – che sta presentando in tutta Italia – dal titolo “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere oggi i problemi aperti 70 anni prima”.

Sul Fatto Quotidiano Gustavo Zagrebelsky ha scritto 15 punti per rappresentare la propria contrarietà alla riforma. In uno di questi afferma come la riforma della costituzione non debba garantire la governabilità bensì un governo. Come risponde?

Da anni Zagrebelsy segue un filone culturale che sostiene come il malfunzionamento delle istituzioni rappresentative e di governo possa essere surrogato dal potere giudiziario. E’ un’opzione di tipo culturale che personalmente non condivido. Se ci confrontiamo con le democrazie europee di pari importanza, vediamo che tra un problema e l’altro – seppur con regole diverse – hanno tutte sempre assicurato un governo di legislatura. Ciò invece in Italia non è accaduto. Basta pensare alla cancelliera tedesca Angela Merkel che nei vertici europei ha visto alternarsi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi. Mi pare difficile sostenere che in Italia non ci sia un problema di governabilità e che le soluzioni adottate con la riforma non lo riducano.

Altra contestazione mossa da Zagrebelsky deriva dalla sentenza della Corte Costituzionale sul porcellum. Secondo tale impostazione, questo Parlamento non avrebbe avuto la legittimità ad intervenire su una materia delicata come la riforma della Costituzione. Che ne pensa?

La legittimità è un argomento che non si può usare. O si è legittimi o non si è legittimi. O bisognava andare a votare subito e il Parlamento non poteva fare più niente. Oppure non era necessario andare a votare e il Parlamento può fare tutto. Come può votare la fiducia al governo ed eleggere il Presidente della Repubblica e i giudici costituzionali, così allo stesso modo il Parlamento può riformare la Costituzione. Dopodichè, se esiste un dubbio di rappresentatività, sarà sciolto dal voto referendario.

Come valuta la critica di chi dice che con questa riforma il ruolo del Parlamento sarà ridimensionato?

Oggi ci troviamo in un Parlamento in cui – come diceva Costantino Mortati – il Senato è un inutile doppione della Camera. Pertanto noi lo valorizziamo visto che gli attribuiamo funzioni differenziate. Ci sono due Camere con un ruolo diverso. In questi anni – considerate le difficoltà decisionali del Parlamento – sono stati trovati dei bypass cardiaci che hanno spostato una serie di poteri sul Governo, a cominciare dall’uso della decretazione d’urgenza. La riforma della Costituzione mira a risolvere le cause che hanno determinato questo bypass cardiaco e cerca di far funzionare la circolazione sanguigna in modo normale. Per un verso, dunque, pone alcuni limiti ai decreti per ricondurli a una dimensione fisiologica mentre, dall’altro lato, garantisce tempi certi alle iniziative legislative del governo, in modo tale che non sia costretto a fare i decreti ma faccia i disegni di legge.

I critici affermano che questa riforma della Costituzione sia stata fatta a colpi di maggioranza. 

Il testo della riforma è stato condiviso anche dal centrodestra. Forza Italia ha condiviso un accordo di merito sul testo. Solo dopo l’elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica, si è sfilata. Quindi, ha applicato una “ritorsione” sul piano delle riforme costituzionali ma non perchè non fosse più convinta del merito. Le votazioni successive sono state secondo le maggioranze previste dall’articolo 138 della Costituzione ma l’accordo sul merito era stato fatto con una maggioranza superiore a quella minima necessaria.

Al contrario, c’è chi sostiene che la riforma avrebbe potuto essere più incisiva. Due gli argomenti in questo senso: la creazione delle macroregioni e la revisione dell’autonomia speciale.

Bisogna premettere come tali argomentazioni siano comunque favorevoli alla riforma. Premesso ciò, penso certamente che delle dimensioni delle regioni si possa ragionare in futuro: non è detto che la riforma debba risolvere tutto simultaneamente. C’è poi una norma transitoria che consente di modificare anche l’autonomia speciale. Dunque, c’è una strada aperta anche in questa direzione.

Versante riduzione dei costi della politica: è un elemento importante di questa riforma? I detrattori sostengono si tratti solo di demagogia.

Il principale taglio dei costi non è tanto quello diretto, con la chiusura dell’inutile Cnel e la trasformazione Senato. Quello vero è indiretto, con la riduzione del conflitto Stato-regioni. Negli ultimi 15 anni è stato incerto se una determinata materia fosse di competenza della legge statale o regionale. Tale confusione ha comportato costi molto rilevanti soprattutto dal punto di vista degli investimenti esteri, che così finivano con l’essere dissuasi. La vera risorsa allo sviluppo del Paese è rappresentata proprio dalla riduzione del conflitto tra lo Stato e le regioni.

E’ un passo indietro rispetto alla riforma del 2001 quando l’Italia sembrava essersi incammminata verso il federalismo? 

Nel 2001 ci furono aspettative esagerate sull’autonomia legislativa regionale, con elenchi un po’ troppo generosi. Questo eccesso di generosità era stato già ridimensionato dalla Corte Costituzionale. Ad esempio, la clausola di supremazia era stata creata dalla Consulta con la sentenza 303 del 2003. La riforma della Costituzione approvata dal Parlamento prende atto di questa giurisprudenza della Corte e la manda a regime. Contemporaneamente però le regioni vengono responsabilizzate a livello nazionale con il controllo del Senato.

Professore, ha definito il Cnel inutile. Si tratta però di un organo che esiste in molti altri Paesi europei. Era proprio il caso di abolirlo? 

Sì, era il caso di abolirlo. Che ci sia bisogno di un raccordo con le rappresentanze di interessi è indubbio. Tuttavia, creare un organismo a parte non rappresenta la soluzione. Ad esempio – dal 1971 in poi – i responsabili sindacali e datoriali vengono chiamati in audizione in Parlamento prima delle grandi scelte legislative. Al Cnel finivano così per arrivare persone non rappresentative di queste realtà. Magari anche ottime persone che elaboravano proposte significative, le quali però non erano patrimonio dell’organizzazione di provenienza. Il raccordo non si fa con un organismo.

Professore, qual è il motivo principale per cui ritiene che questa riforma sia necessaria?

E’ un’anomalia l’aver affidato la formazione del governo a due camere in grado di produrre risultati diversi. Nella prima repubblica –  per diverse ragioni – le elezioni di Camera e Senato hanno prodotto gli stessi risultati. Da quando però sono saltate le appartenenze politiche, è diventato fortemente probabile che ci siano due maggioranze diverse. Lo abbiamo visto nel 1994 con Silvio Berlusconi – che vinse alla Camera e non al Senato – e poi anche con Romano Prodi, sia nel 1996 (quando vinse al Senato ma non alla Camera), sia nel 2006 (quando accadde il contrario). La conclusione è una ed inevitabile: non ha alcuna razionalità che il governo sia affidato al risultato potenzialmente diverso di due camere distinte.


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