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Il mio ricordo di Marco Pannella (tra Schopenhauer e Pink Floyd)

Marco Pannella

In memoria di Marco Pannella, e per tentare di comprenderne ancora qualcosa, non trovo di meglio che due riferimenti, forse lontanissimi fra loro, o forse no.

Da un lato, “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer: un’affermazione potente e assoluta di volontà, di soggettività, di riconduzione della realtà a ciò, e solo a ciò, che un uomo – in questo caso, lui, Marco – voleva e vedeva.

Dall’altro, e non colgo contraddizioni, “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd, il loro omaggio al geniale Syd Barrett, all’amico perduto, all’ispiratore perso, ma anche il riconoscimento dell’anomalia, della follia, dell’imponderabile che ci abita, che cambia irrimediabilmente il corso delle cose, l’incombere di un mistero più grande di noi.

Marco Pannella, armato solo di una volontà tenace e di matite smozzicate, ha scritto pagine di storia incancellabili. Ha amato la politica più di se stesso. Ha fatto della sua follia – reale o apparente – un metodo. Ha educato generazioni di giovani alla libertà, da tutto, e – più faticosamente – anche e perfino da lui. Non senza ferite e conflitti: ma ha creato le condizioni per consentire e dissentire con chiunque, il più vicino o il più lontano, a partire da lui stesso. Ha onorato politica, idee e istituzioni come una religione laica, e – per lui, in questo caso – dubito solo dell’aggettivo, non del sostantivo.

Ho conosciuto almeno due lati della sua personalità inafferrabile e irriducibile: la generosità creativa, e un accanimento feroce, fratelli l’uno dell’altra.

Pur avendo tante ragioni, avevo torto io, ovviamente. Impossibile pensare di ricondurre (anzi, condurre) a “normalità liberale” il caos. Ingiusto, perfino, tentare di omogeneizzare secondo gusti propri (ad esempio, i miei: America, mercato, individuo), una personalità che aveva certamente quei tratti, ma anche mille altri, intrecciati, sovrapposti, contraddittori. Per lui, Croce più che Einaudi, Rossi e Spinelli più che la Thatcher. Ma, sopra ogni altra cosa, il rifiuto di schemi, etichette, gabbie. Anche quelle – magari ineccepibili dal punto di vista liberale – che l’uno o l’altro passante cercava di proporgli. Errore, quello di tanti di noi. Impossibile arginare il fiume, ricondurlo a raziocinio banale e consequenziale, troppo banale e troppo consequenziale per lui.

Della sua vita, ciascuno rilegga e scelga, e cerchi di comprendere, le pagine più congeniali per ognuno di noi. Dall’estrema sinistra all’estrema destra, se ancora esistono, ciascuno troverà spunti, illuminazioni, lampi. E soprattutto due cose in eredità.

La prima: la necessità non di vincere ma di convincere, di “vincere con”, l’atto di amore (e insieme la presunzione un po’ diabolica) di non prevalere ma di persuadere e camminare insieme.

La seconda: un monito con il sapore dell’ossessione, ma di un’ossessione giusta e attuale. La democrazia, lo Stato di diritto, le regole, la circolazione delle idee, la comunicazione: più necessari dell’ossigeno.  E il dolore di constatare l’impossibilità (nell’Italia del 2016 è ancora così) di proporre novità se la libera circolazione delle idee è ostruita, impedita, alterata.

La terra ti sia lieve, Marco. Credevi, citando Capitini, nella “compresenza dei morti e dei viventi”, e forse avevi tanta ragione, su questo. Lontano dal passato e prima del futuro, in un tuo personale e dilatato presente, dialogavi di e con Croce e Berlinguer, Pannunzio e Montanelli, Sciascia e Pasolini. Non so se e dove potrai mai re-incontrarli. Ed eventualmente, nel caso, se lascerai a qualcuno di loro la possibilità di parlarti, oltre che di ascoltarti. Non ne saranno dispiaciuti, credo. Te lo lasceranno fare ancora una volta. Riposa in pace. E grazie.

Daniele Capezzone



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