Nei giorni scorsi il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu è volato in visita in Siria. Ha visitato la grande base aerea di Hmeymin, vicino Latakia, nell’ovest mediterraneo del Paese, e poi ha incontrato il presidente Bashar el Assad, con il quale ha discusso questioni riguardanti la collaborazione tecnica e militare tra le due nazioni. È stata una visita importante (il comunicato del Cremlino specifica due volte che è stata voluta dal presidente Vladimir Putin), che ha prodotto due generi di speculazioni. Una: il ministro russo ha portato brutte notizie, ossia ha detto a Damasco che la strada negoziale intrapresa di sponda con gli Stati Uniti è una realtà da accettare e dunque bando alle sgangherate dichiarazioni del presidente siriano, quelle del tipo “ci riprenderemo ogni centimetro della Siria”, e lasciare spazi al processo. L’altra: c’è la possibilità di un nuovo ritorno massiccio della Russia in Siria, sfruttando l’ufficialità della lotta al terrorismo e una posizione conciliante americana, con lo scopo però di dare un ulteriore (quanto mai necessario) puntello al regime. Si vedrà, per il momento non si fermano i carichi del “Syrian Express”, il treno di vettori navali che portano armi all’esercito siriano e passano per il Bosforo, dove vengono fotografati uno a uno.
L’INTESA DICHIARATA DAI RUSSI
Il giorno successivo alla visita, domenica, il ministero della Difesa di Mosca ha fatto sapere di aver quasi raggiunto un coordinamento con le controparti di Washington: i russi vorrebbero compilare una mappa condivisa delle posizioni militari per evitare “incidenti”, lo dicono da tempo, ma gli americani temono che passando certe coordinate finiscano per mettere i loro ribelli amici nei mirini dei sistemi radar dei bombardieri russi (circostanza quanto mai stringente, si vedrà). Non ci sono conferme e o smentite da parte degli Stati Uniti. Pare impossibile però questa sovrapposizione se si considera che mentre Mosca è il principale dei protettori del regime, l’America ha contribuito a fornire armamenti (e un po’ di training) ad alcune fazioni combattenti moderate che quel regime vorrebbero rovesciarlo. Tutto questo mentre a Washington un gruppo composto da una cinquantina di analisti del dipartimento di Stato con incarichi sul dossier siriano, chiede che obiettivi strategici di Assad vengano inclusi nei raid che la coalizione a guida americana sta già compiendo contro lo Stato islamico.
I RUSSI HANNO COLPITO I RIBELLI “AMICI” DEGLI AMERICANI
Il coordinamento annunciato dal MoD russo esce dopo un’insolita videoconferenza (dice il comunicato del Pentagono che è stata tenuta sotto il Safety of Flight Memorandum of Understanding, l’accordo sui cieli siriani, che però non prevede questo genere di passaggi) dove si è parlato delle accuse arrivate sabato dagli Stati Uniti, secondo cui i caccia russi giovedì 16 giugno hanno preso di mira un gruppo ribelle appoggiato dagli americani (a proposito di condividere le coordinate). Il portavoce del Ministero russo Igor Konashenkov ha dichiarato che c’è stato un dialogo “costruttivo”, ma gli americani hanno un altro genere di idee. Il bombardamento, dicono, è avvenuto ad al Tanf, vicino al confine giordano, in un’area remota, in campo aperto, contro gruppi che osservano la tregua concordata, e dunque è stata un’operazione deliberata (i russi invece replicano che sono stati colpiti target distanti almeno 300 chilometri dalle postazioni dei ribelli amici degli americani). Per altro, ricorda il Los Angeles Times, che gli aerei russi non avevano mai colpito quelle aree in precedenza. I ribelli del raggruppamento che prende il nome di Nuovo esercito siriano, laggiù hanno anche un presidio di confine contro le spurie meridionali dello Stato islamico in Siria (e sono aiutati da forze speciali occidentali, giordane e emiratine), sono finiti sotto due round di bombardamenti in base alle ricostruzioni americane. Dopo il primo giro ci sarebbe stato il tentativo di due FA-18 decollati da una portaerei statunitense di comunicare l’entità degli obiettivi in un canale “pilot-pilot” aperto con i russi, che però non hanno risposto e anzi, quando gli intercettori statunitensi si sono allontanati dall’area per fare rifornimento in volo, hanno colpito con la seconda serie di raid, caduta sulla testa dei soccorsi intervenuti per aiutare le vittime della prima.
LE OPERAZIONI VERSO RAQQA DELLE DUE SUPERPOTENZE
Nel frattempo, molto più a nord, truppe governative e miliziani sciiti lealisti stanno precedendo in direzione Raqqa, capitale siriana dello Stato islamico, obiettivo su cui i russi, che appoggiano dall’aria (e con advisor a terra) l’offensiva, si sono messi in concorrenza con gli americani, i quali si muovono in direzione opposta ma sempre sullo stesso obiettivo, scendendo dal confine turco in appoggio a un raggruppamento ribelle composto dai curdi siriani, fazioni arabe e clan locali. I Sukhoi russi hanno colpito con intensità Tabqa, una città che si trova sulla direttrice che da ovest porta a Raqqa, sulle sponde del lago Assad e vicino alla grande diga sull’Eufrate. Entrambi gli schieramenti sul campo, forse per la prima volta, si stanno dirigendo verso lo stesso, importante target nel quadrante settentrionale, e potrebbe essere un segnale, al di là di quello che è successo al confine con la Giordania; oppure forse è un segnale opposto che indica che non c’è nessun genere di collaborazione. C’è sempre da leggere tra le righe dei messaggi laterali quando si tratta di relazioni diplomatiche, ancora di più quando il protagonista è Putin, e allora, altri segnali: mentre il candidato Donald Trump apre alla Russia, anche per via dei suoi interessi personali, il presidente russo corregge la mira su certe dichiarazioni. A Faared Zakaria della Cnn, che lo ha intervistato, ha specificato che le sue posizioni su Trump erano state riprese “non correttamente” (con particolare riferimento a quelle uscite la scorsa settimana dal forum di San Pietroburgo, quando Putin s’è riferito al magnate definendolo una persona “brillante”), ha aggiunto di non avere preferenze sulla corsa alla Casa Bianca e di voler “collaborare” con “chiunque” sarà il nuovo presidente americano, di considerare l’America “l’unica superpotenza” attualmente e per questo di essere “pronto a lavorare con loro”. Sono altri indizi questi? Dal coordinamento sugli attacchi aerei sta partendo qualcosa di più ampio? C’è un piano condiviso russo-americano per andare a stanare il Califfo a Raqqa? Shoigu è andato ad annunciare che Mosca rallenterà con Assad e cercherà davvero una soluzione politica ampia ai tavoli negoziali? Oppure tutto è strategia, un bluff, per coprire le prossime mosse che seguiranno l’agenda personale del Cremlino?
(Foto: Rus MoD, Sergei Shoigu e Bashar el Assad)