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Come e perché Turchia e Israele hanno deciso di fare la pace

Dopo circa sei anni di gelo – scaturito dall’incidente della Freedom Flotilla, in occasione del quale nove attivisti, di cui otto di nazionalità turca, morirono – Turchia e Israele hanno deciso di seppellire l’ascia di guerra – o per lo meno così pare – e impegnarsi a ricostruire quelle relazioni ormai logore da tempo.

Dopo un’intensa attività diplomatica, le parti si sono date appuntamento a Roma, il 26 giugno, per formulare un accordo definitivo, il quale è stato firmato, dunque formalizzato, il giorno successivo. La firma dell’accordo, accolta positivamente anche dagli Stati Uniti, si è tenuta nelle rispettive capitali, Gerusalemme e Ankara. Da parte israeliana, ad apporre la firma è stato Dore Gold, direttore generale del ministero degli Affari esteri, mentre da parte turca Feridun Sinirlioğlu, sottosegretario agli Esteri, si legge sul quotidiano israeliano Haaretz.

LA SCUSE (LA PRIMA CONDIZIONE)

La delegazione turca si è seduta al tavolo delle trattative avanzando tre richieste, già note alla controparte israeliana: “Scuse ufficiali per quanto accaduto in occasione dell’incidente della Freedom Flotilla, equo indennizzo per le famiglie delle vittime e la fine del blocco della Striscia di Gaza”, scrive il quotidiano turco Hurriyet. Come era facile prevedere, la condizione rispetto alla quale è stato più difficile raggiungere un accordo è stata la terza, complici anche le relazioni che la Turchia intrattiene con Hamas, l’organizzazione (terroristica) che dal 2006 detiene il potere nella Striscia di Gaza, e che fanno storcere il naso allo Stato ebraico.

A marzo 2013, grazie alla mediazione del presidente Obama, Benjamin Netanyahu ha chiamato l’allora primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan per chiedere scusa, a nome di Israele, delle vittime causate durante l’operazione condotta dall’Idf (Israel Defense Forces). Al contempo, però, il leader del Likud ha precisato che Israele rifiutava di chiedere scusa per aver bloccato la Mavi Marmara, la nave guida della Freedom Flottilla sorpresa a violare il blocco di Gaza, nonostante gli avvertimenti della marina israeliana, in quanto atto di legittima difesa.

IL RISARCIMENTO ECONOMICO (LA SECONDA CONDIZIONE)

Per quanto riguarda il risarcimento economico, Israele ha acconsentito a versare 20 milioni di dollari che saranno devoluti alle famiglie delle vittime, riporta il quotidiano egiziano Al-Ahram. Non tutti, però, hanno accolto positivamente la scelta. Un soldato dell’Idf, che ha preferito conservare l’anonimato, ha così commentato la decisione, si legge sulla testata egiziana: “Noi siamo stati inviati per arrestare una flottiglia terroristica. Quella era la missione. Come è possibile oggi ritrovarsi a ricompensare dei terroristi che hanno cercato di ucciderci? Che messaggio si veicola, così, al resto dell’esercito?”.

LA QUESTIONE UMANITARIA PALESTINESE (LA TERZA CONDIZIONE)

In merito alla terza condizione, c’era da aspettarsi che Israele non avrebbe acconsentito a eliminare il blocco della Striscia di Gaza, imposto per impedire il contrabbando di armi. La Turchia è sempre stata chiara nel ribadire che i rapporti con Hamas non sarebbero stati oggetto di discussione in sede di negoziato con Israele.

Il compromesso raggiunto prevede che Israele permetta alla Turchia di costruire un ospedale adeguatamente attrezzato a Gaza, una centrale elettrica e un impianto di distillazione per rendere l’acqua potabile. Gli aiuti provenienti dalla Turchia, e destinati alla popolazione palestinese della Striscia, invece, passeranno prima attraverso il porto israeliano di Ashdod. In cambio, la Turchia impedirà ad Hamas di condurre attività militari, o mettere a punto piani, contro Israele. L’Organizzazione palestinese, però, manterrà la propria sede diplomatica in Turchia.

Infine, Israele è riuscito a ottenere l’aiuto delle maggiori agenzie turche per risolvere la questione dei quattro cittadini israeliani dispersi a Gaza. Su The Time of Israel si legge che “a battersi affinché questa clausola fosse inserita nell’accordo sono stati, in primo luogo, le famiglie di Hadar Goldin e Oron Shaul, soldati israeliani entrambi uccisi nella Striscia nel 2014, e di Avraham Abera Mengistu, anch’egli scomparso a Gaza nello stesso anno. Nel territorio palestinese ci sarebbe anche un quarto israeliano, presumibilmente prigioniero di Hamas”.

I RAPPORTI DI ANKARA CON HAMAS

A rendere difficili i rapporti tra Israele e Turchia sono soprattutto le relazioni che quest’ultima intrattiene con Hamas. A pochi giorno dall’accordo, il ministro degli Affari esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu precisava, come riportato da  Hurriyet, che “ciascun accordo tra Turchia e Israele, in vista dell’avvio di una fase di distensione, dipende da quello che farà Tel-Aviv. Le relazioni turche con Hamas a Gaza non saranno oggetto di discussione in sede di negoziato con Israele”. Il ministro, infatti, sosteneva che l’amicizia Hamas non è mai stata un segreto e che non ci sarebbe stata nessuna condizione, sul tavolo delle trattative, chiamata Hamas per ristabilire rapporti diplomatici con Israele.

Secondo l’agenzia di stampa turca Anadolu, il 24 giugno, due giorni prima dell’incontro di Roma, il presidente Erdogan ha incontrato il leader in esilio di Hamas, Khaled Mashaal. “Il presidente turco e il leader dell’Organizzazione palestinese avrebbero discusso come risolvere la questione […] dell’assistenza umanitaria turca alla popolazione di Gaza”, riporta Hurriyet. In altre parole, i due leader avrebbero concordato la posizione che la Turchia avrebbe mantenuto, in sede di negoziato con Israele, laddove l’accordo avrebbe implicato, seppur indirettamente, delle conseguenze per la Gaza e i suoi abitanti.

L’IMPORTANZA DELL’ACCORDO

“La riconcilizione con la Turchia avvantagerà moltissimo l’economia israeliana”, ha affermato lunedì mattina Netanyahu, in occasione dell’incontro tenutosi a Roma, presso l’ambasciata americana, con il segretario di Stato John Kerry. Il primo ministro israeliano ha anche chiamato il vice-presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, per ringraziarlo di aver incoraggiato il riavvicinamento con la Turchia, si legge su The Time of Israel. In risposta, Biden si è congratulato con Netanyahu per “i progressi compiuti in vista della distensione con la Turchia, sottolineandone l’importanza per la sicurezza e l’economia di entrambi i Paesi coinvolti e della regione mediterranea tutta”.

In effetti la portata degli effetti positivi scaturiti dalla ripresa delle relazioni tra i due Paesi non è da sottovalutare. Da un punto di vista strategico, la Turchia ha tutte le carte in regola per apparire agli occhi dello Stato ebraico – le cui ultime scelte di politica interna hanno destato diverse polemiche, all’interno e all’esterno –  un alleato prezioso: è un paese musulmano, con una popolazione di circa 80 milioni di abitanti, stato membro della Nato e alleato degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale.
Da un punto di vista economico, poi, l’impatto dell’accordo potrebbe essere quantificato in milioni di dollari, qualora Israele riuscisse a ottenere le concessioni necessarie per esportare gas in Turchia.

IL CASUS BELLI

I malumori tra Turchia e Israele, le cui prime manifestazioni risalgono già all’Operazione Piombo Fuso – con cui lo Stato ebraico, a cavallo tra il 2008 e il 2009, aveva deciso di neutralizzare Hamas, in seguito all’intensificarsi del lancio di razzi qassam – si sono acuiti nella primavera del 2010, in seguito all’incidente della Freedom Flotilla, in occasione del quale nove attivisti, di cui otto di nazionalità turca, sono morti e dieci soldati israeliani, di cui due in modo grave, sono rimasti feriti.

La Fredoom Flotilla era una flottiglia di attivisti pro-palestinesi che, violando il blocco di Gaza, cercavano di trasportare aiuti umanitari e altre merci. Intercettate da forze navali israeliani, nelle acque internazionali del Mar Mediterrano, cinque delle sei navi costituenti la Flotilla sono state abbordate senza l’uso della forza. La più grande, la Mavi Marmara, invece, avrebbe ignorato gli avvertimenti della marina israeliana, stando a quanto dichiarato da un portavoce dell’Idf. Da lì sarebbe nato lo scontro a fuoco, trasformatosi poi in una carneficina, in seguito al quale Ankara e Gerusalemme hanno reciso ogni relazione diplomatica.



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