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Tutte le verità su Nato, Italia e missione prolungata in Afghanistan

Arpino

In tutti i grandi vertici si decidono, formalizzandole, le decisioni già “raccomandate” dall’azionista di maggioranza. Se non piacciono, non si contrastano, ma, nello sforzo di farle tornare utili ed appetibili a ciascuno, si sfumano. Attorno al tavolo, quindi, nessuna sorpresa: è un lavoro che matura lentamente e si svolge già nei mesi precedenti. Magari lasciando sfuggire qualche sporadico annuncio, in modo da non impressionare il pubblico dell’ultima ora. Come in tutti i CdA (Consigli di Amministrazione) che allineano un buon numero di soci, anche il Vertice dei Capi di Stato e di Governo della Nato, appena concluso a Varsavia, non poteva sfuggire a questa logica.

Sono consessi, questi, dove più che altrove appare quanto le Forze Armate, con la loro flessibilità, siano un utilissimo “strumento” a disposizione della politica. Come è giusto che siano. Una volta ci insegnavano che sono anche “fattore di potenza”, ma su questo, oggi, è meglio stendere un pudico velo. Poi, c’è di mezzo l’Onu, che con istituzionale caparbietà si impegna nel mondo perché tutti vivano in pace. Pensiero inconfutabile, di facile digeribilità, che purtroppo – ed è un vero peccato – appartiene alla categoria delle idee, non delle realtà quotidiane. E’ per questo che le missioni di pace dell’Onu, a meno che qualche insensibile temerario senza cuore non decida di dare un taglio netto, durano per sempre. E per alcuni (vedi gli eserciti dell’Unione Africana, ma non solo) sono anche un’ottima fonte di sostentamento.

Prendiamo per esempio il caso dell’Afghanistan, che, come il Libano ed il Kosovo, per propria natura è una delle missioni chiaramente destinata a durare per sempre. E prendiamo anche il caso del nostro Governo, che – oggi più che mai – di machiavellismo politico è sempre stato esempio da imitare. O da non imitare, secondo i gusti e le tendenze. Sembrano passati cent’anni da quando il generale John Campbell, comandante delle forze statunitensi in Afghanistan e dell’Isaf, aveva simbolicamente arrotolato all’asta il vessillo verde e bianco della coalizione internazionale ed innalzava quello della nuova missione, la Resolute Support. Rivolgendosi ai soldati ancora sul terreno (tra i quali i nostri, mentre inglesi e francesi avevano giù lasciato con largo anticipo), il generale li ringraziava, elogiandoli per “…aver sottratto il popolo al buio della disperazione, restituendogli la fiducia nel futuro”. Soddisfazione, quindi, per i risultati conseguiti. Ancora superiore, però, quella dimostrata dai Talebani, il cui portavoce commentava testualmente: “… stanno scappando, non essendo riusciti a sconfiggerci. La loro missione è stata un vero fallimento, come dimostra la cerimonia odierna”.

Era il 28 dicembre 2014, anno XIII della missione Afghanistan. Oggi siamo all’anno XV, ci viene chiesto di rimanere e siamo costretti a potenziarci, venendo a mancare al nostro contingente quella minima cornice di sicurezza fornita dagli spagnoli, che – come già inglesi e francesi – unilateralmente hanno deciso di rimpatriare. Sembrano passati cent’anni anche da quando il nostro Presidente del Consiglio, indossando di fronte ai soldati inappuntabilmente schierati nel compound di Herat un’improbabile combinazione militaresca di jeans, camicia bianca e mimetica, così si esprimeva: “…. Siamo nella fase finale e più difficile di questa missione e non dobbiamo assolutamente vanificare gli sforzi fatti e il sangue versato. Facciamo ancora un piccolo sforzo di qualche mese prima di lasciare l’Afghanistan e terminare la fase di transizione verso la pace e la libertà di questo Paese”.

Poi c’è stato qualche inconveniente, non tutto, com’era ampiamente prevedibile, è andato liscio. L’esercito e la polizia afghana non sono – e chissà mai quando lo saranno – in grado di far fronte ad una minaccia che forse per molti di loro non è nemmeno tale. Le sonore batoste prese nella “tranquilla” Kunduz ed in altre province sono emblematiche, a dimostrazione che il proclama talebano del 28 dicembre 2014 non era del tutto irragionevole. Oltre a loro, nelle province spadroneggiano i signori della guerra e dell’oppio e, dopo le sconfitte militari in Siria, in Iraq e lo scarso attecchimento in Libia, cominciano ad affacciarsi tra i monti e le vallate afghane i foreign fihters del cosiddetto Stato Islamico. D’accordo, son un terzo incomodo, ma meglio qui che in Europa….

Così, a Varsavia ci chiedono di rimanere e noi, fatte le debite valutazioni, accettiamo. In fondo, si tratta solo di “addestrare” forze altrui, e a questo sia il nostro Parlamento che il nostro pubblico ormai ci è abituato. La missione non cambia, e non serve nemmeno una nuova autorizzazione. Eppoi, con l’incremento a rimpiazzo degli spagnoli si accresce la cornice di sicurezza dei cooperanti e dei nostri addestratori. Sotto il profilo militare, in Siria, Iraq e Libia dalla lotta al Califfo abbiamo già preso le debite distanze ed abbiamo appena smentito la Nato dicendo che il nostro bilancio della difesa non è aumentato. Difficile, quindi, che sotto questo profilo la politica interna abbia altri problemi.

Ma agli americani, specie all’amico Obama, non si può sempre dire di no. Allora anche la politica estera, come quella interna, va messa in sicurezza. Così andiamo a proteggere la diga di Mosul, riapriamo sul Muos, mandiamo qualche decina di soldati in Polonia, qualche intercettore nei Paesi Baltici, qualche missile a difendere la Turchia da Bashar al-Assad e, forse, perfino dai Russi. Che, però, proteggiamo da un ulteriore inasprimento delle sanzioni.

E allora, è giusto che rimaniamo in Afghanistan con serenità, sapendo che non spareremo a nessuno se non per difenderci e contribuiremo ad assecondare gli sforzi del Governo sia in politica interna, sia in politica estera. “Hic manebimus optime”!



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