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Il terrorismo islamico segna la fine della modernità

Lingotto, 5 stelle, molestie

Le tranquille città europee non esistono più. Prendiamone atto. Nizza è come Beirut o una qualsiasi città del Medio Oriente. Il nemico è dietro l’angolo, gira fra di noi, inafferrabile perché si confonde con noi ed è imprevedibile. È la fine della modernità, con la divisione lineare fra un esterno e un interno, fra nemici e amici. A poco servono le attività di intelligence e di prevenzione dove ci sono organizzazioni senza struttura, senza logica, con uomini non solo disposti a morire ma che più radicalmente cercano la morte, con azioni improvvisate o comunque imprevedibili.

Con la modernità muore soprattutto il “progetto illuministico”, la credenza cioè che tutte le civiltà, anche quella diverse dalla nostra, avrebbero fatalmente ripercorso il tragitto che porta dalla religione, identificata con il mito o la superstizione, al pieno dispiegamento della ragione. La convinzione, anzi, che civiltà diverse dalla nostra potessero in qualche modo percorrere il cammino di “laicizzazione” e secolarizzazione, o se si preferisce di “disincanto” o “morte di Dio”, in modo più rapido o accelerato, per semplice contatto e contaminazione emulativa con la nostra civiltà.

Lo schema illuministico lo vediamo oggi all’opera in chi pretende di dialogare e essere “inclusivo” nella fede non espressa che la Ragione si dispiegherà da sola. Ma è possibile dialogare con chi non vuole essere incluso e che, soprattutto, è in schiacciante predominio numerico e forse finanziario? Come dice giustamente Ernesto Galli Della Loggia, in un riuscito e a suo modo “definitivo” articolo ieri sul Corriere della Sera, il problema è culturale. E chiama in causa, rima di tutti, i cosiddetti “intellettuali”. Ciò che prima di tutto era sbagliato nello schema illuministico o moderno, di cui il marxismo ha rappresentato la sottospecie “rivoluzionaria”, era proprio l”idea che la civiltà moderna e liberale nascesse come e in antitesi a quella precedente, medievale e cristiana, e non come una sua naturale, per quanto non predeterminata e non predeterminabile, evoluzione.

La lotta contro l’infame, per dirla con la nota espressione usata dagli illuministi, in questo senso, era da una parte una sorta di masochismo, un segare i piedi della sedia su cui si stava seduti; dall’altra, serviva ad equiparare, sotto l’etichetta di mito o superstizione, religioni diversissime e niente affatto equiparabili tanto, meno sotto l’astratta etichetta di monoteismo (che sarebbe per ciò stesso un indice di tendenziale autoritarismo). Fondamentale è, ad esempio, la differenza, che si è voluta per troppo dimenticare, fra una religione di guerra, funzionale alla vita di popoli bellicosi, come quella islamica, e una religione basata sui concetti dell’amore e della carità, quale quella cristiana.

Si è voluto non considerare il fatto che la violenza, di cui il cristianesimo storico e istituzionalizzato si è sicuramente macchiato nel corso della sua bimillenari a storia, poteva essere considerata una deviazione dal centro o concetto ideale della religione cristiana, un errore che la storia avrebbe potuto almeno in parte (come in effetti è avvenuto) emendare. Non così potrà mai accadere per l’Islam, il quale inserisce con tutta evidenza la violenza nel proprio ordine di possibilità (e questo spiega a mio avviso la difficoltà che hanno molti islamici niente affatto terroristi a pronunciare una parola di seria condanna del radicalismo terroristico islamico).

È evidente che il superamento che la trasformazione delle società islamiche in senso laico e secolarizzato potrà avvenire solo per mezzo di una netta cesura, della prima in un ordine laico e secolare che inserisce la violenza nel proprio ordine di possibilità (e questo spiega la difficoltà di molti islamici niente affatto terroristi a pronunciare una seria condanna dell’islamismo politico e terroristico), può avvenire solo attraverso l’abiura, la rottura netta, la cesura. Non sapere e non fingere di sapere questo non aiuta né noi né chi suo malgrado è costretto a vivere in universi comunitari ove religione e politica si intrecciano in modo strutturalmente indissolubile.

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