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Tutti gli sbuffi in Forza Italia su Stefano Parisi

Giovanni Toti

Alla corte di Silvio Berlusconi, fatto salvo il giro strettamente familiare o parafamiliare, dalla figlia Marina a Confalonieri, che è fedele anche di nome, dall’onnipresente Gianni Letta, cortese anche nel darti le peggiori delusioni, all’avvocato Niccolò Ghedini, versione veneta e azzardata del più celebre e toscano Niccolò Machiavelli, tanto rapidamente si sale quanto rapidamente si scende.

Si scende a volte immeritatamente, come accadde a suo tempo ad Angelino Alfano. Che da segretario dell’allora Pdl e delfino di un Cavaliere ancora regnante a Palazzo Chigi, si sentì e si vide negare dalla mattina alla sera, per quanto solerte nei suoi compiti come lo era stato da ministro della Giustizia, quel “quid” indispensabile, agli occhi di Berlusconi, per essere un vero leader. O per non diventare da delfino a trota, come Umberto Bossi fece in tempo a chiamare il figlio scambiato per il suo erede politico, prima ancora che incorresse negli infortuni dei rimborsi e della laurea conseguita a sua insaputa in Albania.

Si scende a volte meritatamente, come pare stia accadendo in questi giorni a Giovanni Toti, da cui Berlusconi sarebbe rimasto deluso –non a torto se le indiscrezioni di stampa fossero vere- per le reazioni infastidite, diciamo pure critiche, alle disponibilità, ambizioni, idee, dichiarazioni, interviste e quant’altro di Stefano Parisi. Che, per quanto rifugga prudentemente dall’immagine di leader, conoscendo i suoi polli troppo permalosi e sospettosi, e si accontenti di essere presentato o di presentarsi come federatore o manager, ha fatto venire la mosca al naso del governatore della Liguria.

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Il giovane Toti, promosso dalla mattina alla sera, a suo tempo, da giornalista e direttore a consigliere politico di Berlusconi, che in verità cominciò non a prendere ma a dargli consigli su come vestire e soprattutto dimagrire, fornendolo anche di tuta bianca ed altri accessori in un centro fra i più apprezzati allo scopo, si è messo in testa di avere vinto l’anno scorso le elezioni regionali della Liguria alla grande e non alla piccola. Per avere cioè saputo convincere davvero la maggioranza degli elettori e tenere ben unita la coalizione del centro sinistra, comprensiva dell’irrequieto Matteo Salvini, e non perché la sinistra si era semplicemente e rovinosamente divisa, anzi suicidata, fra una candidata moderata del Pd e l’ex segretario generale, nonché ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, insoddisfatto dell’esilio dorato al Parlamento Europeo.

Anche Parisi, da non confondere naturalmente con l’Arturo amico di Romano Prodi, che il conterraneo Francesco Cossiga chiamava Arturro per l’abitudine dei sardi di raddoppiare la erre, e non solo quella, è riuscito in verità a tenere unito nelle recenti elezioni comunali di Milano quello che fu il centrodestra. Egli ha recuperato addirittura gli alfaniani di Maurizio Lupi e il ricco e ambizioso Corrado Passera, ma ha avuto evidentemente il torto, agli occhi del governatore ligure, di avere mancato la vittoria sul candidato del centrosinistra Beppe Sala, sia pure di poco.

Un altro torto di Stefano Parisi, per Toti, è quello di non avere ancora sentito il bisogno di iscriversi a Forza Italia, forse per riservarsi l’iscrizione –cosa che a Toti deve essere piaciuta ancora meno- al partito che sembra destinato, addirittura con un altro nome, a prenderne il posto, e per giunta a breve, dopo una convenzione in autunno: di quelle che Berlusconi, fra due mesi ancora meno convalescente di oggi, e nel pieno del vigore degli anni che per lui valgono la metà, per cui dagli 80, da compiere a settembre, ha il diritto di toglierne la metà, sa organizzare e animare come nessun altro.  

Toti invece è convinto che Forza Italia sia uno slogan, oltre che un nome, insostituibile. D’altronde, avendo portato tanta fortuna a lui, non capisce perché se ne debba considerare il superamento. Non solo va bene il nome, o lo slogan, ma va bene, all’incirca, anche il modo un po’ disordinato e accidentale in cui è gestita. Di rivoluzionarla, quindi, come invece Parisi è sembrato voler fare in alternativa alla creazione di un altro partito, o come premessa, neppure a parlarne, secondo il governatore ligure. Che deve essersi rivolto, nella sua azione di contenimento di Parisi, anche all’omologo lombardo Roberto Maroni, espostosi qualche giorno fa con una intervista alquanto diversa dai giudizi o dagli umori liquidatori del collega e segretario di partito Matteo Salvini. Ora anche Maroni consiglia a Parisi più calma, o prudenza.

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Il mio amico Giuliano Ferrara, che di queste cose sa sicuramente più di me, per avere avuto e avere ancora una certa devota dimestichezza con Silvio Berlusconi, cui è riuscito ad imporre addirittura il rispetto per la sua barba, scambiata invece sul volto di altri per qualcosa di poco pulito ed elegante, deve avere avvertito il rischio che, per quanto deluso e forse anche irritato, l’ex presidente del Consiglio finisca per subire le resistenze di Toti e degli altri ufficiali e sottufficiali di Forza Italia, decisi a difendere i loro gradi e il loro spazio.

Il fondatore del Foglio, come Eugenio Scalfari della più anziana o meno giovane Repubblica di carta, pur prendendola alla lontana, come solo lui sa fare, partendo dagli Stati Uniti per arrivare in Italia, ha chiesto ai suoi ancora amici della corte di Berlusconi, in disgrazia o in crescita che siano, di non farlo “morire di sinistra”, come una volta quelli di sinistra non volevano “morire democristiani”.

Già attratto, eccome, da Matteo Renzi, da lui promosso nelle librerie e nelle edicole “Royal baby” di Arcore, per quanto nato e cresciuto in Toscana, il povero Ferrara vede nel rischio di una rapida discesa anche di Parisi nella corte berlusconiana la condanna a morire, appunto, di sinistra. Che per lui, poi, non sarebbe un morire, ma soltanto un tornare.

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