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Ettore Bernabei, una autobiografia dedicata ai giovani

Di Ettore Bernabei
Ettore Bernabei

Desidero dedicare il premio AGOL alla mia carriera (13 luglio 2016, ndr) ai miei maestri e ai miei collaboratori. Sento il bisogno di ricordarli in brevi flash: i miei genitori che mi insegnarono che Dio esiste in eterno e che ha creato l’universo, l’uomo e la donna. Il maestro Zunin che, dalla prima alla terza elementare, mi insegnò a leggere e a studiare “per diventare uomini consapevoli”. Il mio parroco, don Bensi (quello che battezzò l’israelita Lorenzo Milani), che mi preparò alla Cresima e alla prima Comunione, insegnandomi ad amare Dio. In casa sua, a 15 anni, conobbi il professor La Pira, che, finita la guerra mi presentò a Dossetti, Fanfani e De Gasperi.

LA VOCAZIONE ALLA COMUNICAZIONE

La mia carriera dal 1945 ad oggi si è svolta prevalentemente nella comunicazione, all’ombra della politica. Iniziò a Firenze, nel settembre ’45 alla Nazione del Popolo, un quotidiano edito dal Comitato Toscano di Liberazione (dal fascismo) e che aveva cinque direttori e cinque spicchi di redazione politica, quanti i partiti di Governo. Quando il mio ex professore Vittore Branca mi offrì di entrarvi, in quota democristiana, io già lavoravo all’Assicurazione La Fondiaria. Dissi che gli avrei dato una risposta a breve. Andai a chiedere un consiglio a don Bensi, da anni mio confessore, severo ma ottimista. Per la prima volta mi rispose con durezza distaccata: «Tu, hai la libertà e la responsabilità di decidere se lasciare un impiego, solitario ma sicuro, o intraprendere una carriera dove si può far del bene a molti, ma c’è anche il rischio di far del male». Abituato ad eseguire, il più delle volte, le decisioni dei genitori, degli insegnanti o dei superiori di quattro anni di vita militare e di guerra, mi resi conto allora che dovevo decidere da solo. Cercando di interpretare la volontà di Dio, scelsi il giornalismo.

Alla Nazione del Popolo eravamo tutti laureati, praticanti tra i venti e i trent’anni, tranne il vicedirettore capo, Palandri che, fino al 1944, aveva lavorato La Nazione. Da buon cattolico ci insegnò i rudimenti del mestiere. I colleghi di redazione, personalità non banali per intelligenza e cultura, avevano una formazione laicista e professavano idee marxiste o liberali. Nelle pause di lavoro si facevano animate discussioni di politica, sociologia, storia e attualità. Per non finire sott’acqua e dimostrare la validità delle mie convinzioni, mi servirono tutti gli approfondimenti fatti nelle biblioteche fiorentine e le letture dei “classici Rizzoli” che il mio babbo mi comprava a dispense settimanali. In quelle discussioni notturne imparai a rispettare ed apprezzare chi la pensa diversamente da me e loro mi ascoltavano con interesse. Al fondo eravamo tutti antifascisti, per la libertà, contro la monarchia e per la repubblica.

Con alcuni di quei redattori siamo rimasti amici, veri, ancora oggi.

Finita l’esperienza de La Nazione del Popolo – con il finire dei governi nazionali tripartiti – nel Comitato di Liberazione Toscano, social-comunisti e democristiani decisero di risarcire gli azionisti liberali e del Partito d’Azione lasciando liberi noi giornalisti di confluire o ne Il Nuovo Corriere o in quello che si chiamò Giornale del Mattino. Sotto questa testata di area cattolica vennero a lavorare con me liberali e azionisti, con il pieno gradimento del presidente del CdA, Renato Branzi, il più autorevole dei dirigenti democristiani in Toscana, amico di De Gasperi, Gronchi, La Pira e Fanfani.

Del Giornale del Mattino io divenni direttore nel 1951, con il compito, discretamente espressomi dall’editore, di appoggiare la prima amministrazione di centro sinistra del sindaco di Firenze La Pira e di preparare un esperimento simile (con i socialisti, sganciatisi dai comunisti) sul piano nazionale. Con giornalisti molto più brillanti di me, come i liberali Bianchi e Lepri, il Giornale del Mattino, pur avendo una circolazione solo nell’Italia centrale diventò un quotidiano di informazione a livello nazionale, con il quale polemizzava Il Corriere della Sera e La Stampa, oltre a La Nazione, Il Resto del Carlino e L’Unità.

Nel 1956 Fanfani – segretario politico della DC – e, dopo la morte di De Gasperi, guida della maggioranza governativa, mi chiamò a Roma a dirigere e rivitalizzare Il Popolo, quotidiano ufficiale della DC. Come linea editoriale Fanfani mi indicò quella del centro sinistra. Per far questo gli chiesi – ed ottenni – l’autorizzazione a portare in redazione i più validi giornalisti de Il Giornale del Mattino, anche non iscritti alla DC. Nel giro di pochi mesi, Il Popolo diventò un quotidiano di strategie politiche, citato spesso criticamente dai più autorevoli quotidiani nazionali ed internazionali.

FANFANI E LA DESIGNAZIONE IN RAI

Alla fine del 1960 Fanfani, Presidente del Consiglio nel Governo delle cosiddette “convergenze parallele”, d’accordo con Moro, segretario della DC, propose all’IRI la mia nomina a direttore generale della Rai. Quando fui nominato, lasciai dopo quindici anni la comunicazione su carta stampata per andare a dirigere l’unico organo italiano di comunicazione radio-televisiva.

Mi chiesi cosa volesse il Signore da me, un giornalista di 39 anni, che da poco tempo aveva perduto un padre saggio e credente, piccolo impiegato delle Ferrovie. Andai a parlarne a Bologna con il Cardinale Lercaro, uomo di Dio che, anche sotto il Fascismo, aveva sempre difeso i più deboli e gli emarginati. Gli dissi che di comunicazione giornalistica un po’ me ne intendevo, ma di intrattenimento sapevo solo quello che sa uno spettatore di cinema e di teatro, o quello che sa un lettore di opere teatrali. Lercaro mi disse prontamente: «lei vada tranquillo a dirigere la Rai perché ci sono due cose importanti, che per me non sono più oggetto di fede ma di esperienza: la Provvidenza e la Grazia di stato». Tornai a Roma più tranquillo e, dopo pochi giorni, scrissi una lettera di ringraziamento al Presidente Fanfani, che mi rispose a mano così:

«Caro Direttore, ricevo la Sua cortese lettera d’oggi. La ringrazio delle buone parole. Approvando la sua designazione non ho fatto che seguire la mia convinzione, maturata in una ormai lunga osservazione delle Sue qualità e del Suo lavoro. Ora le auguro di ricordare ogni giorno quale alta cattedra Ella dirige e quanto numerosi e vari siano gli spiriti che da essa attendono informazioni vere, orientamenti costruttivi, svaghi sereni, per divenire uomini e cittadini migliori. Questo ricordo quotidiano La renda solerte ed attento, con zelo scrupoloso ed intelligenza aperta. Io ho assolto il mio dovere di assicurare alla Rai Tv un direttore probo e capace. Assolva ora Ella il Suo di dimostrare che il Governo ha ben servito l’interesse pubblico. Questo è il mio augurio affettuoso per Lei e per la Sua opera! Cordialmente. A. Fanfani».

Pensate un po’ a ricevere a 39 anni una lettera così!

 L’ESPERIENZA A VIALE MAZZINI

Alla Rai trovai una situazione molto più difficile del previsto: l’apparato dirigenziale da più di trent’anni era nelle mani del vicedirettore Marcello Bernardi, intelligente, colto, amico dell’avvocato Agnelli e dei suoi sodali. In radio e TV tutti i responsabili, dell’informazione e dell’intrattenimento, erano stati nominati dal Fascismo. Nel 1945, il Vicedirettore aveva assunto, accortamente, due israeliti, intelligenti e colti, sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, mettendoli a capo uno dell’Amministrazione (Vasari) e uno all’Area Tecnica. Con questa blindatura il vecchio apparato funzionariale resistette nel dopoguerra ai sette governi De Gasperi, elogiando i governanti ed ignorando o criticando con misura gli oppositori. Solo nel 1955 Fanfani riuscì a far nominare A.D. della Rai, Filiberto Guala. Ma l’onnipotente “apparato Bernardi”, con una sofisticata rivolta di palazzo, fece fuori Guala e rimase padrone assoluto della Rai. Alle mia prima riunione di Consiglio di Amministrazione (a Torino) il direttore amministrativo presentò le sue proposte di bilancio consuntivo 1960 e preventivo 1961 in poco più di venti minuti. Prese poi la parola il vicedirettore generale dicendo: «credo che tutti abbiamo letto le proposte scritte e propongo che siano approvate all’unanimità, anche perché vi ricordo che alle 20 siamo attesi per cena in casa Agnelli» e fece il gesto di alzarsi; altrettanto fece l’A.D., ing. Rodinò. «Scusate – dissi ad alta voce – chiedo la parola sul preventivo ’61. Ho letto nelle carte che i 2/3 delle risorse dovrebbero essere destinate alle spese di amministrazione e per gli impianti tecnici; propongo destinazioni diverse”. Il vicedirettore, seduto alla mia destra, mi sussurrò all’orecchio: «non insista perché le proposte dell’ingegner Vasari non sono mai state criticate, anche per rispetto alla sua persona sopravvissuta a Mauthausen». Gli sussurrai: «anche io lo rispetto molto, avendo fatto l’ultimo anno di guerra come ufficiale della Quinta armata americana per liberare, dal Fascismo e dal Nazismo, l’Italia dalla Linea Gotica al Po». Proposi di destinare due terzi delle risorse ai programmi e un terzo all’amministrazione e agli impianti tecnici. Il vice dell’ing. Vasari fornì una lunga serie di documentazioni. L’A.D. Rodinò tentò una mediazione. Il CdA approvò un’assegnazione ai programmi del 50% delle risorse.

Sulla programmazione Rai degli anni ‘60 sono state dette e scritte tante cose pro e contro. Per merito di esperti registi, scrittori, organizzatori, tutti più bravi di me, gli indici di ascolto e di gradimento crebbero; la gente che guardava la TV, alla sera andava a dormire soddisfatta e, alla fine del ’62, accolse compiaciuta la notizia – molto documentata in radio e TV – che l’Italia aveva conquistato il quarto posto fra i sette Paesi più industrializzati del mondo. Il “miracolo italiano” era frutto del modello di sviluppo che la lungimiranza di De Gasperi aveva affidato all’invenzione dei “professorini” Dossetti, La Pira, Fanfani, Moro: aziende pubbliche che fornivano a quelle private energia, semilavorati, servizi a basso costo, rendendole competitive sui mercati internazionali. In tutte quelle aziende, sensibili aumenti salariali incrementarono la produttività. Determinante fu il lavoro sodo di tutti i prestatori d’opera, dai comunisti ai democristiani. All’inizio degli anni ‘70 tutti i dirigenti di primo livello nominati negli anni ’30 erano stati promossi ispettori superiori, senza deleghe operative. Al vicedirettore Bernardi furono aggiunti due colleghi più giovani e più preparati. Dissi ai politici che ritenevo la mia missione compiuta. Chiesi un altro incarico perché avevo ancora molti figli agli studi.

DA ITALSTAT ALLA LUX

Soltanto nel settembre 1974 l’Iri mi nominò A.D. dell’Italstat – holding finanziaria di imprese di progettazione e di costruzione – che fatturava 450 miliardi di lire all’anno. Nel nuovo incarico cercai di superare la mia mancanza di competenze tecniche con innovazioni strategiche. Valutai che le Regioni facevano fatica ad esercitare le funzioni di progettazione e costruzione sul proprio territorio di grandi opere trasferite ad esse dal Ministero dei LL.PP. Pensai che un complesso di valide imprese come quello dell’Italstat potesse fornire un prezioso supporto. Assunsi molti giovani laureati in ingegneria e architettura mettendoli a capo dei tecnici solo diplomati.

L’Italstat quando andai in pensione nel 1991, fatturava 6.000 miliardi di lire.

Molti amici autorevoli della politica e delle gerarchie ecclesiastiche mi sollecitarono a tornare alla Rai. Rifiutai decisamente dicendo: «Per riparare ai danni della Tv violenta, trasgressiva e volgare non bastano le emittenti. Ci vuole chi pensi e realizzi buoni programmi che affrontino la vita con realismo e speranza. Sono disposto, ad organizzare una società che produca sceneggiati. Vi chiedo di aiutarmi a convincere autorevoli industriali e finanzieri a partecipare ad una SpA. Io ci metto tutta la mia liquidazione di 30 anni di dirigente IRI».

Alcuni di quegli amici autorevoli lo fecero e così, fra il 1991 e il 1992, dieci persone (fra le quali Pesenti, Bazoli, Falck, Arvedi, Merloni) ci misero ognuno 800 milioni in lire e nacque la Lux Vide, (con un capitale 8 miliardi di, lire) che subito cominciò a produrre sceneggiati che riunissero genitori e figli nelle serate televisive. Per i ventun film del “Progetto Bibbia” – che andarono con successo sulle Tv di 143 Paesi nel mondo – raccogliemmo dal mercato internazionale e spendemmo 600 miliardi di lire. La Lux Vide, ideatrice e produttrice, si contentò di un margine del 3% investendo il più possibile sulla qualità elevata del prodotto. Il coproduttore Beta di Monaco di Baviera, distributore, ne ricavò il 20%.

Non parlo delle recenti produzioni Lux di gran successo: oggi la Lux, sotto la guida dei miei figli Luca e Matilde, produce e distribuisce in Europa e nel mondo 60 ore all’anno di televisione trovando ovunque un pubblico consenziente: la gente è stufa di una comunicazione violenta e trasgressiva. Ma vuole storie credibili che l’accompagnino per molte settimane a trascorrere in serenità momenti di distensione e magari l’aiutino a risolvere qualcuno dei suoi problemi quotidiani: si parva licet componere magnis un po’ quello che fece Tolstoj scrivendo in appendice ad una rivista settimanale “Guerra e Pace” e “Anna Karenina”.

A questo punto sento il dovere di testimoniarvi che quello che sono riuscito a fare nella mia carriera è per la maggior parte opera della Divina Provvidenza, il resto una mia collaborazione, non sempre adeguata.

Roma, 13 luglio 2016  



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