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Come combattere la corruzione secondo Raffaele Cantone e Michele Corradino

Raffaele Cantone e Michele Corradino

Espellere i corrotti dal sistema è molto più importante che metterli in galera“. Parola di Raffaele Cantone che ieri – alla Galleria Alberto Sordi a Roma – ha partecipato alla presentazione del libro scritto dal commissario dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e, praticamente suo braccio destro, Michele Corradino. “E’ normale… lo fanno tutti” è il titolo del volume edito da Chiarelettere, nel quale Corradino racconta quanto questo fenomeno sia penetrato nella società italiana, al punto di essere considerato da molti quasi fisiologico e inevitabile.

Ma fortunatamente non è così“, ha detto Cantone per il quale – nonostante il tentativo dei corrotti di sminuire, giustificare e banalizzare – oggi è cambiato il modo con cui a tutti i livelli si guarda alla corruzione: “Che il Papa, ad esempio, ogni giorno utilizzi parole durissime nel condannare questo fenomeno è di fondamentale importanza“.

La condanna nei confronti della corruzione, ovviamente, è unanime nel dibattito pubblico. Ciò che diverge sono però le opinioni in merito alle ricette da mettere in campo per contrastarla efficacemente. Un esempio in tal senso lo ha offerto anche il dibattito di ieri. Per il giornalista dell’Espresso Lirio Abbateda anni costretto a vivere sotto scorta a causa dei suoi articoli – è necessario “aumentare le pene per chi viene condannato per corruzione“. Secondo Cantone, invece, a contare non è tanto il carcere quanto soprattutto la garanzia che i corrotti non possano più operare in certi ambienti. “Che vadano in prigione mi interessa il giusto. Io voglio che siano condannati rapidamente, che siano espulsi dal sistema delle imprese e della pubblica amministrazione e che vengano colpiti duramente sui soldi“.

Quanto agli strumenti di indagine, poche divisioni: magistrati e giornalisti di giudiziaria concordano sulla loro necessità, i distinguo semmai riguardano l’annosa questione della pubblicazione. “Chi nega che l’intercettazione sia lo strumento principe o è in mala fede o non capisce niente“, ha tagliato corto Cantone, il quale – da questo punto di vista – vorrebbe controlli ancora più incisivi: “Bisognerebbe utilizzare alcune delle regole previste per i reati di mafia. D’altronde il meccanismo di nascondimento delle prove è lo stesso. Ad esempio io renderei possibili le intercettazioni anche quando vi siano sufficienti indizi, senza che debbano essere gravi com’è invece richiesto oggi“.

Il nocciolo della questione è sempre lo stesso: la pubblicazione sui giornali delle conversazioni telefoniche al vaglio dei magistrati, specie di quelle che poco o nulla hanno a che fare con i reati oggetto dell’inchiesta. Quando è giusto pubblicare e quando no? Fin dove possono spingersi i giornalisti? C’è un limite che non devono valicare? Domande rese attuali dall’utilizzo non sempre esemplare che delle intercettazioni telefoniche viene fatto dai quotidiani. Com’è in fondo naturale che sia, sono i giornalisti stessi a difendere l’attuale sistema: “Non voglio fare l’avvocato d’ufficio della categoria, ma sono rari i casi in cui la vita di una persona sia stata immotivatamente rovinata dalla pubblicazione di un’intercettazione“, ha sottolineato Fiorenza Sarzanini, cronista di cronaca giudiziaria del Corriere della Sera: “Ogni sistema è perfettibile, anche quello sulla pubblicazione può essere migliorato. Ma non si possono tacere le centinaia di querele temerarie che noi giornalisti riceviamo. Se deve essere aperta una discussione, lo si faccia su tutto“.

Un tema per sua natura dividente – sul quale politici e addetti ai lavori si lambiccano inutilmente da anni – perché chiama in causa tre diversi diritti: quello dei giornalisti a dare le notizie e a informare il pubblico, quello dei lettori a essere informati e quello degli intercettati a veder rispettata la loro privacy, soprattutto quando i fatti pubblicati esulano dall’indagine in corso. Calcolando che molto spesso si tratta pur sempre di indagini e non di condanne definitive. “Un ragionamento su questo punto comunque va fatto“, è stato il monito di Cantone, perché – ha detto – ci sono stati casi in cui la pubblicazione di un’intercettazione ha causato danni gravissimi a persone poi successivamente dichiarate innocenti. Considerazioni che nulla tolgono al ruolo sociale che la stampa è chiamata a svolgere contro la corruzione: “E’ il cane da guardia della democrazia che deve sì tutelare la dignità delle persone ma anche fare il proprio lavoro e scrivere, ad esempio, se qualcuno ruba“.

E di persone che rubano nel nostro Paese ce ne sono non poche, come emerge dal libro scritto da Corradino: un’autentica galleria degli orrori in cui sono raccontate storie di affaristi, corrotti e corruttori con alcuni episodi inediti, tra cui ad esempio l’intercettazione telefonica nella quale un padre insegna al figlio come corrompere. “Questo libro” – ha raccontato l’autore – “nasce anche dai dialoghi intrattenuti con alcuni studenti“.  Una statistica, in particolar modo, ha colpito Corradino: il fatto che “la maggioranza dei ragazzi ritenga la corruzione un normale scambio di favori“. Una situazione allarmante figlia – ha spiegato il commissario dell’Anac – “di una banalizzazione del fenomeno troppo frequente“. Le cose però cambiano quando si entra nel merito, “quando si spiega ai giovani che i Paesi con più corruzione sono quelli con la maggiore percentuale di fuga dei cervelli e con i minori investimenti in ricerca e sviluppo”. E’ di fronte alle statistiche e ai dati ufficiali “che i ragazzi capiscono“. A dimostrazione che solo la cultura della prevenzione – suffragata da un continuo lavoro di educazione – può produrre stabili risultati in questa battaglia.


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