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Cosa succede se vince il No al referendum. I report di banche d’affari, fondi e analisti

E’ forse la domanda fondamentale che molti italiani si stanno facendo in questa lunga campagna referendaria: “Se il 4 dicembre prevalessero i No, ci sarebbero o non ci sarebbero ripercussioni economiche negative sul Paese e sulle tasche dei cittadini?“. Dubbio sul quale qualche giorno fa a Politics, su Rai Tre, è intervenuto nuovamente Matteo Renzi: dopo aver sposato nella prima fase del dibattito una risposta di tipo allarmistica, ora il premier si dice, invece, convinto che non ci sarà la fine del mondo, ma che semplicemente tutto rimarrà così com’è. Il che – a suo avviso – sarebbe già, di per sé, una pessima notizia per l’Italia.

LA VERSIONE DI SERRA

Alla stessa domanda, però, stanno rispondendo in modo diverso istituzioni economiche, società specializzate e finanzieri vari. Un esempio in tal senso sono le parole pronunciate ieri a Piazza Pulita, su La 7, da Davide Serra  il fondatore e amministratore delegato del fondo Algebrisnoto simpatizzante renziano: “Se al referendum vince il Sì ci saranno capitali che diranno: ‘Bene, il processo degli ultimi tre anni continua, quindi proviamo a investire’. Se invece vince il No, i capitali non entrano in Italia”.

LE CERTEZZE DI JP MORGAN

Altrettanto definita la posizione di Jp Morgan che taluni in Italia considerano la vera ispiratrice della riforma RenziBoschi. Il suo orientamento sul tema è contenuto in documento del 28 maggio 2013 che – a distanza di più di tre anni dalla sua pubblicazione – continua a far discutere. Nelle sedici pagine del paper la società finanziaria invitava gli Stati dell’Europa del sud a disfarsi delle costituzioni socialiste e antifasciste varate nel secondo dopoguerra. Esemplificativo a tal riguardo questo passaggio del documento: “I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche“.

I DUBBI DI GOLDMAN SACHS

Qualche timore lo ha manifestato anche la banca d’affari Goldman Sachs in uno studio reso noto i primi di settembre. Secondo il colosso di Wall Street, la vittoria del fronte del No potrebbe ripercuotersi sul sistema bancario italiano e, in particolare, sul Monte dei Paschi di Siena alle prese con un complesso e niente affatto scontato tentativo di salvataggio. Se ciò accadesse – ha scritto Milano Finanza a proposito dei dubbi di Goldman – “chi rischierebbe di scendere in campo per un aumento di capitale oneroso in un quadro politico generale incerto, anche nel caso che il premier Renzi restasse fino allo scadere naturale del mandato, nel 2018? E il mancato aumento di Mps a cascata si ripercuoterebbe su tutto il sistema bancario italiano e su altri rafforzamenti di capitale“.

L’AVVERTIMENTO DI MOODY’S

Lo stesso identico dubbio è stato sollevato ieri dall’agenzia di rating Moody’s nel corso di un incontro con la stampa a Milano. Secondo l’analista bancario dell’agenzia Edoardo Calandro, il No metterebbe a rischio la fiducia degli investitori e “renderebbe più difficili gli aumenti di capitale per le quattro banche più deboli“, ossia “Mps, Carige, Veneto Banca e Pop Vicenza“. Nessun downgrading automatico dell’Italia però, ha affermato lo stesso Calandro: “Non c’è nessun automatismo. Il risultato del referendum è un ulteriore punto di analisi all’interno di una situazione più complessa“.

IL REFERENDUM E LA “A” DI DBRS

Sarà anche come dice Calandro, ma intanto qualche giorno fa sul Corriere della Sera Federico Fubini ha raccolto l’opinione difforme di Fergus McCormick, capoeconomista e capo dei rating sovrani dell’agenzia canadese Dbrs. Meno nota rispetto alle tre più famose – Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch – ma in questa situazione ben più strategica per l’Italia. Dbrs è, infatti, l’unica agenzia di rating a classificare al miglior livello di qualità – con l’agognata “A” – i titoli del debito pubblico italiano, mentre le altre gli assegnano solo diverse sfumature di “B”. Il dato è importante perché – spiega Fubini – “la Bce valuta i titoli di Stato offerti in garanzia dalle banche in cambio di liquidità sempre in base al rating più alto“, per l’appunto la “A” di Dbrs. Che, però – dopo il referendum – potrebbe decidere di declassare il nostro Paese. Chiede Fubini: “Avete messo l’Italia sotto revisione con implicazioni negative. A quando una decisione?” Risponde McCormick: “Il nostro comitato del rating può orientare i suoi appuntamenti in base a circostanze straordinarie. Il risultato del referendum, insieme a una crescita più bassa e livelli più alti di crediti deteriorati delle banche, potrebbe indurre il comitato a convocarsi in base a quella scadenza“.

L’APPELLO DI FITCH

Un sostanziale appello al Sì è arrivato prima dell’estate anche da Fitch, per la quale la prevalenza dei No potrebbe bloccare il faticoso percorso di riforme avviato dall’Italia con pesanti ripercussioni sul sistema Paese. “L’esito del referendum sarà fondamentale per determinare se la spinta alle riforme continua o va in stallo“, ha sentenziato l’agenzia di rating. La definitiva entrata in vigore della Costituzione riformata “promette sia una legislazione più facile che un governo più stabile“, mentre con la sua bocciatura “il rischio politico aumenterebbe significativamente e alcuni degli sforzi fatti per spingere la produttività e la crescita di lungo termine potrebbero indietreggiare“. Un messaggio difficilmente equivocabile.

LA POSIZIONE DEL FMI

Un po’ più sfumata – ma pur sempre improntata a sostenere le ragioni del Sì – risulta essere la posizione del Fondo Monetario Internazionale guidato dalla francese Christine Lagarde. Da New York non è arrivata alcuna esplicita indicazione di voto. “Sta al popolo italiano decidere come vuole votare al referendum costituzionale e che tipo di sistema elettorale e Senato vorrebbe avere“, ha dichiarato il capo della missione in Italia del FMI Rishi Goyal, a cui, però la riforma renziana sembra piacere abbastanza: “Ci sono elementi importanti all’interno delle riforme costituzionali che sono legati allo snellimento delle responsabilità nei diversi livelli del governo con l’obiettivo di agevolare il processo decisionale, che potrebbe avere benefici“. Il nemico da combattere – secondo Goyal – è l’incertezza: “E’ uno degli elementi che si può valutare come parte di un insieme più ampio di fattori che stanno condizionando l’outlook“. E intanto – anche nell’incertezza dell’esito della consultazione referendaria – l’FMI continua a ridurre l’outlook del nostro Paese.

L’AVVISO DELL’OXFORD ECONOMICS

Un altro avviso ai naviganti è arrivato oggi dall’Oxford Economics, una delle maggiori società indipendenti di ricerca e analisi previsionale di economia globale. Secondo i suoi studiosi, la vittoria dei No al referendum potrebbe costare al nostro Paese mezzo punto percentuale di crescita del Prodotto Interno Lordo nel 2017. Le stime in caso di approvazione della riforma vedono il pil aumentare il prossimo anno dello 0,9%, mentre – nell’eventualità di una bocciatura – crescere solo dello 0,4%.

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L’ATTENZIONE DI RUSSEL INVESTMENTS

Occhi puntati sul nostro Paese anche da parte di Russell Investments, società di investimenti che gestisce un patrimonio di 244 miliardi di dollari in tutto il mondo. Nel suo outlook relativo all’ultimo trimestre del 2016 la società dichiara di monitorare “con attenzione tre eventi chiave che potrebbero causare volatilità di breve periodo: le elezioni presidenziali americane; il referendum costituzionale in Italia; un eventuale aumento dei tassi di interesse da parte della Fed“. Nello specifico – commenta il Client Portfolio Manager di Russell Luca Gianelle –  “la vittoria del No potrebbe costringere Renzi a rassegnare le dimissioni, causando timori sulla stabilità dell’Italia e sul destino stesso dell’euro”.

LA PRESSIONE DI CITIGROUP

A mettere un altro po’ sotto pressione gli italiani ci ha pensato anche Citigroup, considerata la più grande azienda al mondo di servizi finanziari. Il 3 luglio la società ha definito il referendum “il più grande rischio del 2016 nello scenario politico europeo”, Brexit esclusa.

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