Quando durante il dibattito televisivo tra i candidati alle presidenziali americane i giornalisti moderatori Anderson Cooper e Martha Raddatz hanno rivolto a Donald Trump la fatidica domanda di spiegazione sul video pubblicato la scorsa settimana dal Washington Post – quello di riesumato da undici anni fa, in cui il candidato repubblicano spiega i suoi comportamenti sessuali aggressivi giustificati dal fatto che è un Vip e dunque a lui tutto è concesso – The Donald ha risposto che video o non video lui ha cose più importanti a cui pensare e il suo obiettivo resta “sconfiggere l’Isis”. Un politico navigato italiano avrebbe commentato “E che c’azzecca?!“, e in effetti niente: è forse semmai la testimonianza che Trump non si era preparato al dibattito (possibile non avesse studiato una risposta migliore?), incentrando tutta la sua performance nell’attaccare la democratica Hillary Clinton, con accuse anche paradossali (tipo: la minaccia di farla arrestare quando lui diventerà presidente, riferita alla storia della email, “un po’ come quei dittatori che quando salgono al potere fanno incarcerare i loro avversari”, ha commentato su Facebook Gianluca Di Tommaso, comunicatore e osservatore della politica americana; insomma, non il massimo per uno che vuole guidare “la più grande democrazia sulla terra” per dirla con le parole del post con cui su Facebook l’ex segretario di Stato Condoleezza Rice, il giorno prima del dibattito, aveva tolto l’appoggio al candidato del suo partito proprio a causa di quel video imbarazzante).
TEMI SQUALLIDI, CATTIVERIE, POLITICA ESTERA
È stato “il più squallido dei dibattiti mai visti in una campagna presidenziale” ha commentato il New York Times, e probabilmente perché è stato tutto incentrato “su termini personali” (“Il più cattivo della storia” secondo Politico) – è anche una necessità: col putiferio che la scorsa settimana s’era scaricato su Trump, le tasse non pagate e il video imbarazzante, l’unico modo che il magnate aveva di tenersi il suo elettorato e limitare i danni era attaccare Hillary, e lo ha fatto anche con un linguaggio del corpo piuttosto esplicito, il dito puntato (gli osservatori sono convinti che, sebbene sia difficile che abbia guadagnato nuovi consensi, Trump è andato meglio che nel primo confronto, proprio perché ha attaccato Hillary e potrebbe essere piaciuto di più al suo zoccolo duro d’elettorato). S’è comunque parlato, differentemente che nel primo degli scontri televisivi, di un argomento specifico e di interesse strategico internazionale come la questione siriana: è un tema caldo, perché nelle ultime due settimane (quelle successive al dibattito del 26 settembre) la tregua decisa da Washington e Mosca è saltata, i governativi con l’appoggio russo hanno iniziato a colpire Aleppo con una violenza mai vista, distruggendo obiettivi civili e umanitari, i rapporti tra Stati Uniti e Russia non sono mai scesi così in basso negli ultimi anni, con i primi che hanno formalmente accusato gli altri di crimini di guerra.
IL PARADIGMA SIRIANO
La politica estera non è l’argomento che attrae di più l’attenzione degli elettori (nemmeno) in America, però durante il dibattito di domenica a St. Louis i due candidati hanno affrontato direttamente la situazione siriana, che può essere un paradigma delle loro visioni generali sulla foreign policy. Clinton ha proposto di continuare ad armare i curdi siriani e di creare una no-fly zone sulla Siria. Sono due temi scabrosi: il primo mette gli Stati Uniti in un posizione di ambiguità nei confronti della Turchia, perché è vero che le milizie curde dell’Ypg sono il migliore dei partner americani sul campo nel combattere il Califfato, ma è altrettanto vero che Ankara le considera gruppi terroristici e persegue contro di loro una politica di repressione armata. Il sostegno ai curdi siriani è uno dei principali aspetti che hanno messo in crisi i rapporto tra Stati Uniti e Turchia, alleati storici nel quadro Nato: se Clinton calca su questo appoggio, allora dietro vi si può leggere una politica più ampia nei confronti di uno dei grandi alleati in Medio Oriente. E più presente. Seconda questione, la no-fly zone: è uno degli argomenti su cui Hillary è in contrasto con l’Amministrazione Obama fin dai tempi in cui ricopriva il ruolo di segretario di Stato, per lei è un passaggio necessario (per proteggere i civili e permettere l’invio di aiuti ai ribelli, e per altro sarebbe un bilanciamento con i turchi, che la chiedono da almeno tre anni), mentre la Casa Bianca la ritiene una decisione rischiosa perché rischia di acuire i contrasti con la Russia (che succede se i caccia russi violano le direttive di no-fly?). Anche Trump, insolitamente, ha espresso una propria linea sulla questione, e ancora più insolitamente ha puntualizzato di non essere d’accordo col suo vice designato, Mike Pence. Pence, che si è pubblicamente dissociato dal candidato repubblicano per il video uscito sul WaPo, aveva parlato anche lui della necessità di istituire safe-zone per i civili, dicendo che forse è arrivato il momento di “usare la forza contro obiettivi militari” di Bashar el Assad se non rispetta gli accordi; questa è una questione che è tornata di moda tra i corridoi di Washington, sebbene sembra improbabile (“tornata” perché è stata il fulcro costruttivo delle red lines di Barack Obama, tutte violate tra l’impunità di Assad). Trump ha detto che per lui non deve andare così, anzi “la Siria sta combattendo l’Isis. Non mi piace Assad ma Assad sta uccidendo l’Isis. La Russia sta uccidendo l’Isis. L’Iran sta uccidendo l’Isis. E questo per via della nostra debole politica estera”. È una dichiarazione che ha spirito più ampio delle contingenze anche questa, rappresenta più o meno la linea con cui i russi stanno intervenendo in Siria, e va soprattutto inserita nel quadro dei collegamenti che portano Trump verso Mosca. Nel criticare Obama ha praticamente aperto a quello che è considerato il principale dei nemici strategici americani, la Russia.
LE BUGIE DI TRUMP
Il Daily Beast ha pubblicato un articolo in cui il giornalista che segue le vicende della Siria e dello Stato islamico per il sito, Michael Weiss, ha fatto un rapido fact-cheking delle dichiarazioni di Trump sul conflitto siriano e annessi – il titolo è già abbastanza esplicito: “Ogni cosa che Trump dice sulla Siria è falsa o folle, o entrambe”. Weiss scrive che l’affermazione di Trump parte da un costrutto falso: non è vero che l’Iran, Assad e la Russia combattono l’IS, o almeno non lo fanno come attività principale ed esclusiva, anzi già nel 2014 i funzionari del regime siriano ammettevano che combattere il Califfato “non era una priorità assoluta“, perché l’Isis avrebbe potuto rivelarsi utile in quanto combatteva, con superiorità, contro gli altri gruppi ribelli e avrebbero fatto il lavoro al posto del debole esercito siriano. “Il regime di Assad ha negoziate in petrolio, gas naturale e armi con la sua presunta nemesi (l’IS. ndr), come hanno fatto le milizie filo iraniane, che hanno sopportato il peso maggiore dei combattimenti per Damasco in questi mesi di lotta, la quale è stata diretta principalmente contro i gruppi ribelli e non contro l’ISIS”. Di più, Weiss cita degli studi che testimoniano come il lavoro dell’aviazione russa contro i ribelli (anche quelli del Free Syrian Army che sono addestrati dagli occidentali per combattere il Califfato perché meno ideologizzati) sta facilitando lo Stato islamico.
(Foto: Youtube, il dibattito del 9 ottobre a St. Louis)