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Si indaga per terrorismo sull’uccisione di tre militari americani in Giordania

“Gli investigatori stanno prendendo in considerazione tutti i potenziali motivi e le ragioni per cui i membri dei servizi americani sono finiti sotto il tiro di armi da fuoco, e non hanno ancora escluso il terrorismo come un potenziale movente”, scrive così una nota dell’ambasciata degli Stati Uniti in Giordania per spiegare il procedere delle indagini su un caso misterioso avvenuto il 4 novembre. Tre uomini delle forze speciali americane sono stati uccisi mentre rientravano in una base giordana, la King Faisal Air Base vicino a Al Jafr, dopo l’addestramento in un poligono di tiro poco lontano. A sparare un soldato giordano. “Contrariamente alle notizie di stampa, non vi c’è stata alcuna prova credibile nel suggerire che il personale degli Stati Uniti ha agito in contrasto con gli ordini o le procedure stabilite per l’accesso alla base”, precisa ancora l’ambasciata per fare chiarezza su voci, uscite anche dai funzionari giordani, secondo cui i tre militari erano finiti sotto fuoco amico, non identificati, dopo non essersi fermati all’alt all’ingresso della base.

La precisazione arriva probabilmente come atto pratico dell’irritazione americana per le voci diffuse da Amman, incline a minimizzare. La situazione è delicata, sia per gli equilibri tra alleati (la Giordania è un paese chiave nel quadro della Coalizione anti-Isis), sia per il contesto. I tre militari uccisi, e un quarto rimasto ferito, facevano parte del programma creato dalla Cia per addestrare al sud i ribelli siriani, un’attività che sta producendo buoni risultati sulla fascia meridionale del Paese, e che contemporaneamente è un cuscinetto di sicurezza per la Giordania, che così può tenere a distanza lo Stato islamico (dal 2011 Washington ha investito soldi anche nel Border Security Programme giordano, che ha il compito di monitorare il confine con la Siria). Il paese resta uno dei luoghi critici per l’attecchimento delle istanze jihadiste, vista anche la presenza, sbilanciata sulla popolazione, di profughi fuggiti dalla guerra in Siria – i campi sono spesso punti dove la narrativa e la predicazione estremista fanno presa sulla disperazione.

Se si trattasse di terrorismo sarebbe un episodio imbarazzante, perché la lentezza con cui procede il programma di aiuto ai ribelli, oltre a incertezze politico-diplomatiche, è dovuta al grosso appesantimento tecnico del processo di verifica. Prima che un gruppo diventi “vetted”, ossia verificato, ogni singolo miliziano deve fare i conti con una serie di analisi per verificare che sia scevro da interessi ideologici radicalizzati. Figurarsi se a sparare fosse stato un militare giordano affiliato a qualche gruppo terroristico. La base era considerata un luogo sicuro, tanto che i militari americani si erano tolti il giubbotto anti-proiettili mentre stavano rientrando. Washington ha mandato una squadra dell’Fbi per indagare sull’accaduto, perché teme che i giordani possano coprire le prove di eventuali coinvolgimenti di gruppi jihadisti, non per complicità s’intende, ma per evitarsi imbarazzi. Il padre del sergente James Moriarty, uno dei soldati uccisi, è un avvocato e ha già raccolto diverse informazioni dai testimoni: al New York Times ha raccontato che viste le dinamiche – gli americani erano rimasti intrappolati tra le due barriere di sicurezza dell’ingresso, sotto il tiro dell’Ak47 del giordano – lui è certo che “si è trattato di un assassinio”.

Proprio l’immagine scattata dal fotografo di Associated Press Steve Ruark alla salma del sergente, avvolta dalla bandiera a stelle e strisce mentre scende da un cargo militare sulla pista della Dover Air Force Base in Delaware, è diventata il simbolo di questa storia, tenuta abbastanza sotto tono – non ci sono commenti ufficiali oltre a quello dell’ambasciata – anche perché arrivata durante la settimana elettorale. Un episodio simile era già avvenuto in un centro di addestramento per la polizia ad Amman, nel novembre del 2015. Il 12 novembre di quest’anno invece, un attentatore talebano si è fatto saltare in aria all’interno della base di Bagram, la principale stazione americana in Afghanistan. L’uomo che ha ucciso due soldati e due contractor statunitensi aveva ottenuto un lavoro nell’impianto dopo aver aderito al processo di pace nel 2008 come ex-talebano: non è noto il percorso di radicalizzazione successivo, ma è noto che i talebani hanno un programma narrativo specifico per attirare proseliti tra gli impiegati degli impianti occidentali nel paese. Entrambi i casi – ammesso che per la vicenda giordana le prove portino verso l’azione jihadista – sono situazioni preoccupanti. Uno scenario peggiore a quello che sarebbe stato un attentato arrivato dall’esterno. Pensare se il colpo al cuore, in alcuni dei luoghi più protetti e sicuri, fosse arrivato realmente da infiltrati interni, elementi quasi impossibili da individuare.

 

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