Continuano a emergere novità dalle audizioni della commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro: dettagli sul clima politico, sull’esatta dinamica dell’agguato e dell’omicidio, sulle indagini superficiali (e sulle coperture investigative) come quelle riguardo alla curiosa vicenda del bar Olivetti in via Fani. Il lavoro della commissione presieduta da Beppe Fioroni (Pd, nella foto) si conferma indispensabile e, in attesa della seconda relazione attesa per la fine dell’anno, si possono cogliere altri passaggi importanti tra le ultime audizioni prima dell’estate e quelle fatte nelle scorse settimane, come seguito ai tre articoli che Formiche.net ha già dedicato ai lavori dei primi sei mesi del 2016.
SIGNORILE, COSSIGA E LA NOTIZIA DELL’OMICIDIO
Nonostante le tonnellate di libri e articoli scritte su questo argomento, non tutte attendibili, sembra evidente che la vera ricostruzione del sequestro, dei 55 giorni di prigionia e dell’omicidio non è ancora stata fatta. Per esempio, il 12 luglio scorso è stato ascoltato Claudio Signorile, all’epoca vicesegretario del Partito socialista, che ha ripetuto un dettaglio fondamentale per ricostruire la mattinata del 9 maggio, quando Moro fu ucciso, dettaglio già messo agli atti dallo stesso Signorile addirittura nel 1980, ma al quale evidentemente non era stata data l’attenzione che meritava. La mattina del 9 maggio, infatti, Signorile (che per conto di Bettino Craxi teneva mille contatti tesi alla liberazione di Moro e che in qualità di vicesegretario aveva il compito dei rapporti con gli altri partiti) alle 9 riceve da Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, una telefonata per invitarlo a prendere un caffè al Viminale. Nello studio del ministro, in un orario che ora Signorile colloca prima delle 11, arriva una telefonata sulla linea diretta e questo è il suo ricordo: “‘È stata individuata un’auto rossa… Si cerca di vedere…’. Poi il prefetto richiama: ‘La nota personalità è morta’”.
IL “TESTIMONE”
In sintesi, la ricostruzione è la seguente: Cossiga appare teso e Signorile conferma a Fioroni di aver avuto l’impressione che il ministro dell’Interno fosse in attesa di una notizia clamorosa, la liberazione dell’ostaggio, e di aver voluto un testimone nel momento in cui avrebbe ricevuto la telefonata. Fioroni, però, ipotizza anche che Cossiga sapesse della morte fin dalle 7 di mattina, ma che gli sarebbe stata comunicata “ufficialmente” più tardi. Infatti, dice Signorile ai commissari, “l’impressione che ebbi allora fu che ero stato chiamato lì per assistere alla telefonata. Perché mi chiami? E perché chiami me? Perché sono la persona più esposta sul versante…” della trattativa. Ricevuta la telefonata, racconta ancora, “Cossiga diventa pallido – lo era già – e mi dice: ‘Devo dimettermi’. Io gli dico: ‘Fai bene a farlo, perché non puoi fare diversamente’. Mi alzo, ci salutiamo e vado da Craxi”.
Nell’audizione viene anche considerata ininfluente la telefonata di Valerio Morucci a Francesco Tritto, che è delle 12.15, visto che a Morucci dicono di telefonare per dare la notizia della morte a prescindere dall’ora esatta in cui Moro era stato ucciso. A conferma di come in ogni caso la notizia fu nascosta per ore (non avevano ancora inventato sms o tweet…), basti ricordare che il primo lancio dell’Ansa che parlava genericamente di un cadavere in una macchina in via Caetani apparve alle 13.59 e che solo alcuni minuti dopo si parlò del cadavere di Aldo Moro.
TRA LENIN E L’HYPÉRION
Il ruolo dei servizi segreti di diverse nazioni è stato uno dei punti centrali dell’audizione di Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Br, poi autocritico, ascoltato il 27 ottobre. Franceschini, che ha scontato 18 anni di carcere, era in cella durante il sequestro Moro. Oltre a un secco giudizio su Mario Moretti (è riduttivo definire spia “uno che si crede di essere Lenin”), Franceschini si dilunga nel descrivere la figura di Corrado Simioni, uno espulso dal Psi per indegnità morale e con soldi nella Grecia dei colonnelli, fondatore di uno dei misteri di quegli anni, la scuola di lingue Hypérion a Parigi. Franceschini racconta quello che gli disse in un dibattito il generale Paolo Inzerilli, uno dei comandanti di Gladio: “‘Guarda, il punto chiave è l’Hypérion’. Proprio me lo disse lui: ‘Noi abbiamo lavorato su questa roba. Il punto chiave è l’Hypérion’. Io dico: ‘Va bene, ma l’Hypérion che cos’è?’. Inzerilli l’ha definita così: ‘Una camera di compensazione tra i vari Servizi’. Mi spiegò che secondo lui era una specie di Parlamento dei Servizi. Siccome le attività dei Servizi sono sempre complicatissime e anche pericolosissime, bisogna porre dei limiti, delle regole e ci sono delle strutture fatte apposta per porre questi limiti. Infatti, se uno guarda l’Hypérion, ci stanno dentro i francesi, gli inglesi, gli israeliani, i palestinesi”.
Ma non basta. Da un lato c’è la curiosa decisione dei francesi di concedere a Simioni “la massima onorificenza”, dall’altro l’interesse mostrato dal Mossad verso le Br. Racconta Franceschini: “La cosa che ci aveva colpito era che questi dicevano: ‘Noi non vi diciamo quali sono gli obiettivi che dovete perseguire. A noi interessa solo che voi ci siate e che continuate ad esserci’” e, su sollecitazione di Fioroni, si dice sicuro che l’interesse degli israeliani si spostò sui “successori” di Franceschini e Renato Curcio dopo il loro arresto. Rivelazioni non inedite, ma molto utili perché, inserendosi nel lavoro della commissione, consentono di collegare meglio diversi aspetti e di inquadrare più approfonditamente i tanti, oscuri, rapporti internazionali tra movimenti terroristici e servizi di intelligence.
IL NUMERO DI BRIGATISTI E LE LETTERE A CRAXI
Ancora oggi, poi, non è ancora chiaro quanti furono i brigatisti che presero parte al sequestro la mattina del 16 marzo 1978: ascoltato il 14 settembre l’edicolante Paolo Pistolesi, infatti, ha detto di averne contati 6, uno in più di quanto venisse dato per acquisito, elemento sottolineato dalla commissione. E comunque non c’è assoluta certezza, visto che Franceschini fa un paragone con il sequestro del magistrato Mario Sossi nel 1974: “Noi, per fare un’operazione di sequestro di una persona, Sossi, che non aveva scorta – quindi non si doveva eliminare una scorta, perché Sossi viaggiava tranquillo da solo dall’ufficio a casa ed era perciò anche facile da individuare e da tenere sotto controllo – impiegammo comunque 18 compagni, mentre a via Fani in 9, stando almeno alle dichiarazioni di Morucci, che poi variano, però un numero molto esiguo”. E Franceschini che, successivamente, chiederà in carcere a Prospero Gallinari com’è stato possibile, si sentirà rispondere: “Noi ci siamo addestrati nel cortile di casa”…
Molto rilevante è stato l’aver appreso che Bettino Craxi, all’epoca segretario del Psi, ricevette tre lettere di Moro prima che venissero rese pubbliche. La testimonianza è di Umberto Giovine, esponente socialista già direttore della rivista Critica sociale e successivamente deputato di Forza Italia. Ascoltato dalla commissione il 19 ottobre, Giovine ha rivelato di aver ricevuto tramite Aldo Bonomi tre lettere perché fossero consegnate a Craxi come “primo destinatario”: una novità che conferma un filo diretto tra i brigatisti e chi, come appunto Craxi, si impegnava nella trattativa per la liberazione del leader dc, anche perché (come ricordato nell’audizione da Miguel Gotor) da una lettera di Moro si capisce che fosse al corrente di quanto avveniva all’esterno.
LA “MEMORIA” DEL GENERALE CORNACCHIA
Particolare interesse è stato dato dai commissari al generale Antonio Cornacchia, all’epoca comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Roma, ascoltato il 5 ottobre e il 3 novembre. Cornacchia, 85 anni, ha dimostrato una memoria invidiabile nel ricostruire tanti passaggi dopo quasi 40 anni anche se Fioroni a un certo punto gli ha obiettato: “Ha una memoria selettiva nelle cose da dimenticare, generale. È incredibile. Ricorda tutto, però ogni tanto…”. Infatti, uno degli elementi che collegano sequestro Moro, criminalità organizzata e depistaggi ruota attorno al personaggio di Tullio Olivetti, proprietario del bar dietro alle cui siepi si nascosero i brigatisti all’incrocio tra via Fani e via Stresa, bar chiuso per uno strano fallimento nel dicembre 1977. Strano tanto che il Sismi chiese ai Carabinieri di capirci qualcosa, visto che Olivetti ne riaprì un altro in una zona diversa e molto meno remunerativa. Eppure il generale Carlo Terenziani, all’epoca comandante della Divisione Podgora, liquidò Olivetti come un personaggio “di dubbia moralità” e addirittura irrintracciabile da un anno. Strano perché, come sottolineò il Sismi, se il bar fosse rimasto aperto il sequestro di Moro sarebbe stato impossibile in quel punto. Il fatto è che il giudice Giancarlo Armati riferisce di arresti mai fatti e di traffici di armi che giravano attorno a quel bar e al suo proprietario, che a una figlia di Moro il maresciallo Oreste Leonardi, caposcorta del presidente democristiano, disse di non frequentare quel bar… In un passaggio dell’audizione, l’onorevole Gero Grassi (Pd) spiega che “sono tanti gli indizi che ci dicono che sul bar Olivetti c’era una sorta di lasciapassare. A una persona attenta come lei tutto questo non poteva sfuggire. Chi lo proteggeva il bar Olivetti, generale Cornacchia?”. “Una bella domanda, ma molto difficile è la risposta”. E il presidente Fioroni aggiunge: “Completo la domanda dell’onorevole Grassi. Lei era il comandante del gruppo operativo, mise sotto controllo il bar Olivetti e il signor Olivetti e scoprì tutto quello. Ci sono delle intercettazioni fatte su suo ordine che non capisco: un tale parla con Olivetti e nel brogliaccio è riportato quello che dice l’altra persona, ma non quello che dice Olivetti”. Contestazioni basate su fatti incontrovertibili, come un traffico internazionale d’armi che emerge da alcune intercettazioni, tanto che Fioroni insiste: “Il nostro problema è perché lei non chiese l’arresto di Olivetti e perché i Carabinieri non portarono ad Armati Olivetti per farlo interrogare”. Eppure Cornacchia non fa una piega e si limita a riepilogare l’attività investigativa svolta, a negare di aver saputo che Olivetti possa essere stato un confidente, in sostanza a dare risposte non adeguate alle obiezioni.
IL TRIPLO GIOCO DI CONFORTO
Cornacchia, però, rivela anche un triplo gioco di Giorgio Conforto, nome in codice Dario, conosciuto come la principale spia del Kgb in Italia per alcuni decenni e padre di Giuliana, nella cui abitazione di viale Giulio Cesare a Roma furono arrestati Valerio Morucci e Adriana Faranda. Che Conforto non sia stato solo una spia del Kgb dal 1932, ma che dal 1938 collaborasse anche con l’Ovra, la polizia segreta di Benito Mussolini, era noto dal dossier Mitrokhin della fine degli anni Novanta ed è stato ricordato anche da Ernesto Galli Della Loggia nel suo ultimo libro (“Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica”, il Mulino). Il generale Cornacchia, però, aggiunge altre “collaborazioni”: con il Sismi e con la Cia. Informazioni che l’ufficiale ebbe dopo il 1980, quando passò al servizio segreto militare. Ancor più in dettaglio, secondo Cornacchia “Dario” lavorava sia per i sovietici che per gli americani proprio durante il sequestro Moro, mentre probabilmente la collaborazione con il Sismi fu successiva. Cornacchia conferma quello che la commissione dà per assodato e che fu detto anche da Francesco Cossiga anni fa: cioè che l’arresto di Morucci e Faranda fu in realtà una consegna orchestrata da Giorgio Conforto e che dopo quell’operazione (secondo quanto un agente Cia di stanza a Roma disse a Cornacchia) il Kgb lo “congedò”.
Nelle prossime settimane la commissione Moro ha in programma diverse altre audizioni. È comprensibile che a molti, soprattutto delle generazioni più giovani, possa apparire perfino anacronistica questa accanita voglia di verità su quel periodo. Basterebbe pensare che da quegli anni è derivata la storia della Repubblica come la conosciamo, forse “indirizzata” a prescindere dalla volontà degli italiani.