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Che cosa combina l’Economist

Matteo Renzi

Non ci si può più nemmeno fidare dell’Economist. Il settimanale britannico, da sempre faro del riformismo liberal e del politically correct, non sembra avere una linea chiara sul governo italiano e sul referendum costituzionale. Dopo essere usciti giovedì con un articolo (non firmato) sul sito del giornale in cui si è spiegato perché l’Italia farebbe meglio a votare No il 4 dicembre (“Why Italy should vote no in its referendum”), venerdì nel numero celebrativo dell’anno “Economist – The World on 2017”, il suo corrispondente da Roma John Hooper scrive cose ben diverse. In un articolo dal titolo “La scommessa di Renzi”, Hooper scrive che “col Sì l’Italia comincerà il 2017 con una possibilità di lasciarsi alle spalle il suo primato di governi instabili e leggi inefficaci, mentre con un No si ritroverà a confrontarsi con uno scenario deprimente e familiare di instabilità politica e forse anche economica”.

Concetti ben diversi da quelli espressi nell’analisi del giorno precedente che, dopo aver bocciato i contenuti nella riforma, specialmente le modifiche al Senato e il grande potere dato al partito vincente, e aver sottolineato come “l’esecutivo avrebbe perso gli ultimi due anni a cincischiare con le riforme invece di lavorare per migliorare la crescita economica”, conclude così: “Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe temuta da molti in Europa. L’Italia potrebbe mettere in piedi un governo tecnico come già avvenuto molte volte in passato”. Lo stesso articolo pubblicato poi nell’edizione cartacea ha però un titolo più sfumato: “A regretful no”, un No con rammarico. Segno che sul tema la redazione si è divisa. Scorrendo i tweet di giornalisti e direttori s’intuisce che da una parte – per il No e contro Renzi – c’è la direttrice Zanny Minton Beddoes e alcuni editorialisti, mentre dall’altra – meno critici con Renzi e quindi per il Sì – c’è appunto Hooper ed altri commentatori.

Insomma, Renzi divide anche l’Economist. Sembrano davvero molto lontani i tempi in cui il settimanale inglese marciava come una falange macedone contro Berlusconi e il suo governo, con la famosa copertina “Why Berlusconi is unfit to lead Italy”, pubblicata a ridosso delle elezioni politiche del 2001, poi vinte dal Cavaliere. Allora il direttore era Bill Emmot, uno dei giornalisti più critici nei confronti del leader del centrodestra italiano, che evidentemente sapeva tenere unita la redazione sulle sue posizioni. Oggi, invece, sembra non essere più così, almeno a vedere le tre sfumature di Renzi apparse questa settimana. Con un giornalista del settimanale che su Twitter fa sapere: “Abbiamo appoggiato il remain nel referendum in Uk e Hillary Clinton alle presidenziali Usa. La nostra decisione di appoggiare il No al referendum italiano potrebbe diventare il bacio della morte per tutti gli avversari di Renzi”.

Anche in passato sul premier italiano il settimanale è stato ondivago. Nel numero annuale dell’anno scorso, infatti, le riforme renziane sono state se non elogiate comunque capite, con un’esortazione ad andare avanti. Mentre il 24 agosto del 2014 si ricorda invece la copertina con una barca di carta che affonda sulla quale ci sono Hollande, Merkel e Renzi dietro con un cono gelato in mano, mentre Mario Draghi è intento a svuotare acqua. Per tutta risposta il premier italiano il giorno dopo si fece immortalare da fotografi e telecamere a mangiare un cono gelato nel cortile di Palazzo Chigi.

Sull’articolo in favore del No di giovedì, però, vanno registrate le reazioni italiane, quasi tutte di condanna. Renzi (“ricordo all’Economist che l’ultimo governo tecnico da noi ha alzato le tasse”) e tutta la sua maggioranza, ça va sans dire. Ma pure l’opposizione, che dovrebbe esultare, è rimasta fredda. “Economist? Non servono maestrini esteri”, dice Matteo Salvini. “I poteri forti hanno capito che il loro burattino italiano non funziona più e quindi abbandonano la nave prima che affondi”, attacca Giorgia Meloni. “Di solito l’Economist non ci prende”, twitta Ferruccio de Bortoli. Insomma, non ci sono più gli editoriali dell’Economist di una volta.



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