IL CONTROLLO PREVENTIVO SULLE LEGGI ELETTORALI
Art. 73 – “Le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro dieci giorni dall’approvazione della legge, prima dei quali la legge non può essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata“.
I Costituenti scelsero di arricchire il sistema delle garanzie con una Corte costituzionale. Normalmente i giudici applicano le leggi. La Corte costituzionale ha, invece, il compito speciale di giudicare le leggi, per verificare se siano conformi alla Costituzione. Si tratta di un modo per garantire che la Costituzione sia rispettata da tutti, anche dal Parlamento quanto emana le leggi. Il controllo sulle leggi si effettua in maniera successiva, cioè su leggi già in vigore. Sono i singoli giudici, nel corso dei processi, a trasmettere alla Corte i dubbi sulla costituzionalità delle leggi che si trovano ad applicare. In questo modo la Corte costituzionale opera un giudizio tecnico sulle leggi, valutando anche il modo in cui siano applicate.
Ora invece si affiderebbe alla Corte anche una forma di sindacato preventivo, cioè su leggi non ancora in vigore.
Si tratta della possibilità per le minoranze parlamentari di impugnare la legge elettorale, prima che entri in vigore.
Questa modifica – nei fatti – è stata suggerita dalle difficoltà con cui si era portato alla Corte costituzionale il giudizio sul c.d. Porcellum. Ma, a ben vedere, rappresenta una profonda modificazione del ruolo della Corte costituzionale.
Nel giudizio sulle leggi elettorali la Corte si pronuncerebbe prima che la legge entri in vigore. In questo modo decide a ridosso del Parlamento e assume le vesti di organo politico, quasi una terza Camera. Serviva davvero per la sola legge elettorale modificare la natura della Corte costituzionale?
IL QUORUM DEL REFERENDUM ABROGATIVO
Art. 75 – “La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi“.
Il referendum abrogativo rappresenta il più importante strumento di democrazia diretta. Cioè, è l’ipotesi principale in cui il popolo viene chiamato a decidere direttamente. Dopo le memorabili battaglie su divorzio e aborto, nei decenni, il referendum abrogativo ha perso molto del suo significato. Non solo in quanto sono stati proposti una cinquantina di referendum, anche su materie di scarso interesse popolare. Ma soprattutto perché il referendum prevede un significativo sbarramento di validità: devono votare almeno la metà degli aventi diritto. Considerando che ormai in Italia quasi il 30% della popolazione non vota mai, la battaglia referendaria non viene condotta fra i Sì e i No. Ma piuttosto fra i Sì e gli astenuti: perché coloro che non vogliono l’abrogazione della legge è molto più facile che chiedano ai propri elettori di non andare a votare. Visto che partono con almeno il 30% di vantaggio (gli astenuti abituali).
Il nuovo art. 75 prova a correggere questa disfunzione. Prevedendo che se il referendum sia stato chiesto da 800.000 elettori, il quorum di validità si calcola sui votanti delle ultime elezioni politiche (nel 2013, il 72,25%).
Si tratta di un aggiustamento significativo, anche se il problema della effettiva partecipazione dei cittadini è molto più grave, in anni nei quali cresce sempre di più la disaffezione verso la politica. E non basta certo la correzione del quorum del referendum abrogativo per risolverlo.
I LIMITI AL DECRETO LEGGE
Art. 77 – “Il Governo non può, mediante provvedimenti provvisori con forza di legge: disciplinare le materie indicate nell’articolo 72, quinto comma, con esclusione, per la materia elettorale, della disciplina dell’organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle elezioni; reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare l’efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento.
I decreti recano misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.
…
Nel corso dell’esame dei disegni di legge di conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto“.
Tradizionalmente il decreto-legge rappresenta un atto eccezionale, con cui il Governo si “auto-assume” la potestà legislativa al fine di fronteggiare calamità, problemi di ordine pubblico, emergenze finanziarie. A partire dagli anni ’70, invece è diventato una specie di “iniziativa legislativa rinforzata”, facendo molto comodo ai governi avere una legge che entrava subito in vigore e su cui il Parlamento doveva pronunciarsi entro 60 giorni. Così, gran parte dei provvedimenti più importanti negli ultimi 40 anni è stato adottato con decreto-legge.
Ora si porrebbero ai decreti tutta una serie di limiti: si esclude che possano intervenire in una serie di materie (elettorale, costituzionale, di delega, etc.) e si richiede che abbiano misure di immediata applicazione e omogenee.
Si tratta di limiti del tutto plausibili, anche perché recepiscono gli orientamenti della Corte costituzionale.
Tuttavia, il nuovo testo non interviene sul vero grimaldello con cui negli anni si è abusato del decreto-legge. I “casi straordinari di necessità e di urgenza”. Questa è la formula con cui si individuano in generale i casi in cui il Governo può adottare decreti-legge. E di questa si è fatta un amplissimo abuso, valutandola in chiave politica e non giuridica.
Nella riforma non si cerca in alcun modo di circoscrivere questa forma, quindi non si elimina il rischio che il Governo continui ad emanane decreti-legge in casi nei quali necessità ed urgenza siano soltanto politici.
L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Art. 83 – “… Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti“.
Davvero preoccupante è l’abbassamento delle soglie per l’elezione del Presidente della Repubblica.
Attualmente, il Presidente è eletto dal Parlamento in seduta comune a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. Tali maggioranze vanno calcolate sui 630 deputati, 315 senatori, più i senatori a vita e i delegati regionali. In pratica, un collegio di più di 1000 votanti.
Con la riforma, verrebbero meno i delegati regionali, per cui voterebbero 730 fra deputati e senatori.
Per i primi tre scrutini si resta a due/terzi degli aventi diritto: cioè 487 voti. Poi si passa ai tre/quinti: 438 voti almeno.
Sarebbero soglie comunque “di garanzia”, considerando che il partito che vince le elezioni alla Camera, con il premio di maggioranza del c.d. Italicum, arriva a 340 seggi. Quindi è praticamente impossibile che scelga il Presidente senza accordi con altri partiti. Ma dal settimo scrutinio è davvero inspiegabile che la soglia passi ai tre/quinti dei votanti e non più degli aventi diritto.
Va ricordato che nelle elezioni degli organi di garanzia si considera la maggioranza sugli aventi diritto al voto e non sui presenti. In quanto la effettiva presenza può essere condizionata da fattori casuali (ad esempio, nei quattro scrutini per la elezione del Presidente Mattarella erano presenti da 953 a 995 votanti, su 1009 aventi diritto).
Infatti i tre/quinti degli aventi diritto su 730 sono sempre 487 voti. Senza che a nulla rilevi quanti dei 730 sono presenti quel giorno. Quando invece si passa a considerare i tre/quinti dei votanti, diviene rilevante se in aula quel giorno del voto ci siano 700, 600 o 500 fra deputati e senatori. Con il rischio che potrebbero bastare anche 300 voti per eleggere il Presidente della Repubblica. E sarebbe il Presidente di un solo partito, attenuando il ruolo di garanzia.
Davvero non va bene.
Prima di sei puntate tratte dalla guida alla riforma costituzionale scritta dal prof. Alfonso Celoto dal titolo “Questa volta No”. La prima è consultabile qui, la seconda qui.