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Perché la vittoria del No farà rinascere il centrodestra. Parla Quagliariello

Penso che il referendum abbia dato una grande spinta all’unità. Dopo la diaspora seguita alla crisi di sistema del 2013, il centrodestra si è ritrovato unito sul No alla riforma costituzionale. A questo punto la prima cosa da fare è andare verso una graduale ricomposizione, ad esempio tra le forze che rientrano nell’alveo cristiano-liberale come il mio gruppo e quello di Raffaele Fitto. In questo senso, si potrebbe già iniziare a ragionare su un’aggregazione parlamentare“. Parola di Gaetano Quagliariello, già ministro nel governo Letta, quindi esponente di spicco di Ncd e ora leader di Idea, movimento che si colloca nel centrodestra, a poche ora dall’esito referendario che ha sancito la sconfitta del Sì alla riforma costituzionale RenziBoschi.

Qualche settimana fa – intervistato da Formiche.net – era stato perentorio. “Se vince il No, Renzi se ne deve andare“, aveva affermato Quagliariello. Una decisione annunciata dal premier ormai dimissionario a tempo di record, a un’ora di distanza dall’esito della consultazione referendaria che ha interrotto la sua esperienza a Palazzo Chigi. Il discorso che l’ex sindaco di Firenze ha pronunciato a notte fonda di fronte al Paese, però, non è piaciuto all’ex esponente del Nuovo Centrodestra. “E’ stato ancora un volta arrogante, ha dimostrato di non aver capito cos’è successo“, commenta il fondatore del movimento politico IDEA: “Ha provato a scaricare sul fronte del No l’onere di una proposta senza rendersi conto, però, che si trattava di uno schieramento di tipo costituzionale. Quel fronte non esiste più, è finito ieri quando si sono aperte le urne“.

Nonostante la sconfitta del Sì e le dimissioni di Renzi, la palla rimane nel campo del Pd?

L’onere – come lo ha definito Renzi – spetta innanzitutto alla maggioranza parlamentare che non è venuta meno. Le altre forze politiche, invece, sono chiamate a un atteggiamento di grande responsabilità, innanzitutto sul tema della nuova legge elettorale. Occorre approvarne una nuova il prima possibile, mi auguro con un metodo ben diverso da quello utilizzato per il varo dell’Italicum.

Con la vittoria del No, però, i cinquestelle sembrano aver cambiato idea. L’Italicum potrebbe finire con l’essere confermato?

No, credo che questa non sia una soluzione praticabile: è una legge elettorale brutta e sbagliata, collegata a doppio filo con la riforma costituzionale. Bocciata la seconda, non si può che fare un passo indietro anche sulla prima. Il nesso in fondo è stato riconosciuto anche dalla Consulta, che ha sospeso il giudizio sull’Italicum nell’attesa che gli italiani si pronunciassero a favore del Sì o del No. Peraltro, per il Senato vige anche una legge elettorale diversa.

L’Italicum, dunque, è da cambiare. Lei, però, è pronto a sedersi al tavolo di un’eventuale trattativa?

Non mi siedo da nessuna parte. Rimarrò all’opposizione e farò il mio lavoro in Parlamento affinché si arrivi a una legge elettorale che si ponga fuori dal perimetro del governo. Ritengo da sempre che l’unita sulle regole rappresenti una risorsa di cui non si può fare a meno.

Che soluzione immagina sulla legge elettorale? Un ritorno al proporzionale?

Il problema non è la scelta tra proporzionale e maggioritario, ma il risultato da raggiungere: occorre una legge elettorale che agevoli la governabilità, ma che tenga anche conto della realtà delle cose. Altrimenti, la strada alternativa è l’uscita dal parlamentarismo per andare verso sistemi diversi nei quali l’esecutivo e il legislativo non sono legati da un vincolo di fiducia, come accade negli Stati Uniti.

Quale immagina che sarà adesso il percorso politico? Bisogna attendere la Consulta prima di entrare nel merito della riforma della legge elettorale?

L’Italicum lo considero caduto in virtù del No alla riforma costituzionale. Per il resto, ricordiamoci sempre che non siamo a metà della legislatura: alla scadenza ordinaria manca ormai solo un anno. Dobbiamo approvare la nuova legge elettorale ed occuparci delle questioni più urgente, a cominciare dalle banche. Dopodiché credo si possa anche lasciare alle contingenze la decisione se votare a a giugno, a ottobre o a febbraio 2018.

Tra i nomi per il dopo Renzi, a circolare con più insistenza è quello di Pier Carlo Padoan. Che ne pensa?

Dal mio punto di vista – considerato che mi trovo e rimarrò all’opposizione – non può essere questo il problema.

L’esito del referendum cosa dice a proposito degli assetti futuri del centrodestra? Ce ne saranno due, quello lepenista di Salvini e quello cosiddetto popolare?

Penso che il referendum abbia dato una grande spinta all’unità. Dopo la diaspora seguita alla crisi di sistema del 2013, il centrodestra si è ritrovato unito sul No alla riforma costituzionale. A questo punto la prima cosa da fare è andare verso una graduale ricomposizione, ad esempio tra le forze che rientrano nell’alveo cristiano-liberale come il mio gruppo e quello di Raffaele Fitto. In questo senso, si potrebbe già iniziare a ragionare su un’aggregazione parlamentare.

Non pensa anche a Silvio Berlusconi e Stefano Parisi?

Iniziamo a semplificare il quadro di questi movimenti, poi mano mano vedremo cosa fare. Nel frattempo è necessario che questa comunità si dia delle regole comuni: un modo per stare insieme, selezionare le sue rappresentanze e premiare il merito.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni rientrano in questo centrodestra di cui sta parlando oppure no?

La prospettiva è quella di un’alleanza con tutti, ma sarebbe un errore partire dal tetto. Ci dovranno prima essere forme di aggregazione intermedie e regole comuni, per arrivare poi a costruire un campo largo che vada da Salvini a Stefano Parisi, sempre che quest’ultimo ci voglia stare. E poi bisogna iniziare a dimostrare che la pluralità di sensibilità è una ricchezza e non un limite: in poche parole, sui temi decisivi – fisco, lavoro, welfare, immigrazione ed euro – dobbiamo iniziare a costruire una proposta comune.

Da questo schema sono invece tagliati fuori definitivamente i suoi vecchi compagni di partito del Nuovo Centrodestra?

Il loro mi sembra un percorso completamente diverso, che questo referendum ha ulteriormente rafforzato. Possono fare un centro alleato alla sinistra. Non mi pare, invece che esistano i margini perché rientrino nel centrodestra. Le occasioni in questo senso non sono mancate ma non le hanno mai colte.

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