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Vi racconto le democratiche baruffe nel Pd dopo il tonfo di Renzi. Parla Alessandra Sardoni

Irresponsabilità, ALESSANDRA SARDONI

Acque sempre più agitate all’interno del Partito Democratico in vista della direzione nazionale in programma nel primo pomeriggio di domani, mercoledì 7 dicembre. La minoranza dem ha già iniziato a fare le barricate sull’ipotesi di voto anticipato cui sta invece pensando con grande insistenza Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio – prima di dimettersi formalmente – dovrà mandare in porto la legge di bilancio per la quale sembra profilarsi una rapida approvazione a Palazzo Madama. Nel frattempo il premier dovrà sciogliere anche un altro interrogativo e decidere se rimanere alla guida del Pd oppure se lasciare pure l’incarico di segretario del partito.

Questioni in frenetica evoluzione che Formiche.net ha approfondito in questa conversazione con la cronista politica Alessandra Sardoni, esperta, tra l’altro, delle dinamiche del Pd e in questi giorni – insieme con Enrico Mentana e Paolo Celata – protagonista su La7 di maratone elettorali, trasmissioni di approfondimento ed edizioni speciali del telegiornale.

Sardoni, che cosa farà Renzi? Rimarrà segretario oppure lascerà anche questo incarico?

Per adesso dirlo con certezza è impossibile. Molto si capirà domani – 7 dicembre – nel corso della direzione del Pd. Di certo, però, per Renzi si tratta di una decisione molto complicata che a mio avviso ancora non ha preso: ci sono motivi che giustificherebbero una scelta sia in un senso che nell’altro.

Perché potrebbe essere tentato dall’ipotesi di rinunciare alla segreteria?

Renzi ha incarnato pienamente lo spirito del Partito Democratico. Da un lato ha sostenuto la cosiddetta vocazione maggioritaria affermata da Walter Veltroni, mentre, dall’altro, ha difeso con le unghie e con i denti la coincidenza tra i ruoli di premier e di segretario. D’altronde, la sua storia è chiara: prima ha scalato il Pd e poi è andato al governo. E tutte le volte che i suoi avversari interni gli chiedevano di separare gli incarichi, si è opposto strenuamente. In questo senso sarebbe una contraddizione che lasciasse Palazzo Chigi senza rinunciare allo stesso tempo alla segreteria: vorrebbe dire che è lui stesso ora a separare gli incarichi.

Non rischierebbe però di scoprirsi un po’ troppo? Da segretario potrebbe continuare a dare le carte.

Certo, questa è l’altra faccia della medaglia. E’ possibile che Renzi ritenga più conveniente rimanere segretario per cercare di continuare a gestire in prima persona questa fase così complessa. Ma non sono sicura, in fondo, che gli convenga così tanto.

Perché?

Tutto sommato se decidesse di non lasciare questo incarico, rimarrebbe sì alla guida del Pd ma sarebbe pur sempre un segretario fortemente indebolito dall’esito del voto referendario e dalla fine dell’esperienza a Palazzo Chigi.

Per questo sta cercando di intestarsi in blocco il 40% ottenuto alle urne domenica?

Sta cercando di dimostrare che quei voti sono tutti suoi. A questo proposito è molto significativo il tweet di ieri di Luca Lotti (che recita testualmente: “Tutto è iniziato col 40% nel 2012. Abbiamo vinto col 40% nel 2014. Ripartiamo dal 40% di ieri!”). I renziani – anche in vista della direzione di domani – hanno voluto rivendicare per iscritto che quel 40% è da ascrivere tutto a loro e al loro leader.

In che misura i renziani sono stati travolti dal trionfo del No di domenica scorsa?

In parte sicuramente sì, ma in modo minore rispetto a Renzi. Nel corso della campagna referendaria il premier ha accentrato tutto in termini di strategia e di comunicazione. Lo stesso aveva fatto in questi anni di governo: le riforme approvate sono le sue. Tutte quante. Questa personalizzazione fa ricadere su di lui le responsabilità della sconfitta. Non è un caso che sia stato molto attento a dire io anziché noi. In questo senso si è comportato da vero leader.

A questo punto quali sono i rapporti tra Renzi e i non renziani come Dario Franceschini che in questi anni lo hanno sostenuto?

Dovrà stringere con loro un nuovo patto. Secondo alcuni retroscena, Franceschini potrebbe andare a Palazzo Chigi ora, per poi ottenere da Renzi nella prossima legislatura il ruolo di presidente della Camera o del Senato. Si tratta però di operazioni rischiose, peraltro tra persone che non si fidano completamente l’una dell’altra. Però si deve anche considerare che un risultato così netto sia difficile da non distribuire su tutto il fronte del Sì: questo vuol dire che anche i non renziani del partito hanno perso. Per farsi un’idea di cosa succederà, comunque, bisogna valutare il quadro nel suo insieme.

A cosa allude?

Queste elezioni rendono difficile per Mattarella non andare al voto in tempi rapidi visto che dalle urne – con questa partecipazione al di sopra di ogni aspettativa – è arrivato un segnale molto forte. D’altro canto, però, c’è una lunga serie di problemi da affrontare: la legge elettorale che non c’è, la Corte Costituzionale che si deve pronunciare, la manovra da approvare definitivamente, la questione delle banche. Inoltre l’ipotesi incontra anche molte resistenze in Parlamento: esiste un partito trasversale che vuole rimanere in carica il più a lungo possibile.

E la minoranza di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza? Si prepara alla spallata definitiva?

Sono troppo divisi e deboli per dare la spallata a Renzi. Però qualcosa glielo hanno dimostrato.

Che cosa?

Che il problema strutturale del centrosinistra esiste anche con lui. Mi riferisco ai rapporti con l’elettorato di sinistra: era già emerso con Prodi, con Veltroni e perfino con D’Alema. Domenica scorsa anche Renzi ha capito cosa vuol dire: spostarsi troppo al centro fa perdere voti a sinistra. Il presidente del Consiglio credeva di aver superato questo problema ma così non è stato.

Da questo punto di vista, dunque, aveva ragione Bersani a voler presidiare quell’elettorato?

Bersani e i bersaniani hanno dimostrato che il rapporto con la sinistra conta, ma al massimo potranno rivendicare di averlo detto prima del voto. La vittoria del No non è loro, ma soprattutto dei cinquestelle, della Lega e di alcuni pezzi di Forza Italia. Questo risultato li rafforza solo in parte. E poi hanno il problema del leader da contrapporre a Renzi.

Ma ci sono ancora le condizioni minime perché il Partito democratico non si divida?

Onestamente non so dire se il Pd sia in grado di reggere. Molto, però, dipenderà dal tipo di legge elettorale che sarà approvata. In uno schema proporzionale ci può essere uno scenario mentre con un sistema almeno in parte maggioritario il discorso cambia.

La frattura è ricomponibile?

C’è un’avversità di fondo che la sinistra dem nutre nei confronti di Renzi. Lo hanno sempre considerato una specie di usurpatore, come qualcuno che gli ha soffiato la segreteria del partito attraverso un opa ostile. Questa distanza rimane, anzi si è acuita ulteriormente. Fatico a capire su quali basi possa esserci una ricomposizione. Di sicuro in questa fase i rispettivi interessi sono ancora una volta divergenti: Renzi vuole andare al voto il prima possibile mentre loro lo vogliono tenerlo lì il più a lungo possibile per continuare a logorarlo.

E D’Alema?

A mio avviso è un problema anche per i bersaniani. A parte il fatto che i rapporti con lo stesso Bersani sono tutt’altro che ottimali, l’ex presidente del Consiglio rappresenta per loro una figura troppo ingombrante. Il modo di D’Alema di restare in campo non è ancora né chiaro né esplicito. Però – dopo il voto di domenica – mi pare difficile che abbandoni il campo. In qualche modo continuerà ad essere attivo.

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