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A che punto è la guerra allo Stato Islamico?

Ci si chiede, ma a che punto è la guerra allo Stato islamico? Stiamo assistendo a un pubblicizzato arretramento territoriale in Libia, in Iraq, in Siria, ma che conseguenze potrebbe avere? “L’arretramento territoriale non è questione di oggi: è una costante che abbiamo osservato, con ondate più o meno intense, già per tutto il 2015. Adesso i media gli danno maggiore attenzione perché accompagna il procedere delle offensive su Mosul e Raqqa, o la liberazione di Sirte”, dice a Formiche.net l’analista della Nato Defense College Foudation Matteo Bressan. “Però io non sarei così ottimista sull’arretramento generale. A parte le situazioni critiche, come per esempio adesso Palmira, con lo Stato islamico non bisogna mai dimenticare il doppio valore del messaggio diffuso dai leader, Abu Bakr al Baghadadi e il defunto Mohammed al Adnani, che hanno invitato i proseliti a combattere il proprio jihad personale anche senza andare direttamente nei territori del Califfato, farlo da casa propria, per conto proprio, contro i cosiddetti infedeli: ne abbiamo visti diversi di queste testimonianze” (probabilmente una anche poche settimane fa, con l’attacco all’università statale dell’Ohio). La sconfitta territoriale dunque non basterà a fermare lo Stato islamico? “No, la sconfitta territoriale non è definitivamente una sconfitta. Sebbene il grande salto di qualità dell’IS rispetto a tutti gli altri gruppi terroristici sia stato l’ancoraggio al territorio, l’instaurazione di uno stato, o per meglio dire la restaurazione, c’è tutta la dimensione terroristica da contrastare”. Per esempio, nel caso libico mentre procede la contabilità di sangue dei baghdadisti rimasti uccisi durante la battaglia, si sta via via appurando che una buona aliquota non è rimasta a combattere a Sirte, e dunque s’è dispersa per la Libia o su un territorio ancora più ampio. Bressan parla della dicotomica dimensione del gruppo jihadista di Baghdadi anche nel libro “Eurasia e jihadismo. Guerre ibride sulla Via della Seta” Carocci (2016), che è stato presentato ieri a Roma alla Fondazione Einaudi in un dibattito moderato dal giornalista Ruggero Po.

LA VIA DELLA SETA

Il volume è cofirmato con altri autori che analizzano rischi e risorse della “Nuova Via della Seta” (alias OBOR, ossia “One Belt One Road“), nome romantico per un asse geopolitico e geoeconomico cruciale che collega l’Asia e l’Europa, unendo Pechino, l’Asia Centrale, Teheran, Venezia, Mosca e Berlino, sottoposta al pericolo del terrorismo internazionale e a quello che arriva da altre minacce asimmetriche, come il crimine organizzato, i traffici illeciti, gli attacchi cibernetici, la pirateria, le tensioni marittime. Focus centrale sul terrorismo, prendendo in esame cause ed effetti: attori non statali, sviluppi dell’uso politico della religione, processi di radicalizzazione, traffici criminali, circolazione di terroristi internazionali e uso del web per fini propagandistici e di reclutamento. Come possono essere contrastate queste minacce? Collaborazione tra stati, convergenze di interessi, trattati, accordi. “Serve stabilità – aggiunge Bressan – perché, prendendo l’esempio ancora dello Stato islamico e delle sue diramazioni in giro per il mondo, fin quando le condizioni di instabilità politica che ne hanno permesso l’evoluzione permarranno, e penso per esempio alle situazione in Siria e in Iraq, traslandole sulla Libia ancora oggi, potrebbero cambiare le sigle, ma non cambieranno i presupposti e l’entità della minaccia”.

LA DIFFUSIONE MEDIATICA DEL TERRORISMO

È indiscutibile che a livello globale la minaccia maggiormente percepita sia il Califfato: i baghdadisti hanno colpito in Europa, in America, in Asia, in Africa, creando scompensi tra il sentimento condiviso e anche nei mercati – economie come quella turistica egiziana sono state messe in crisi dalle continue azioni della Provincia del Sinai dell’IS. “I soldati del Califfato”, per riprendere la formula ormai nota con cui vengono rivendicati gli attacchi, sono una realtà mondiale che ha attirato proseliti e seguaci, a volte emulatori, ovunque, con maggiore concentrazione sulla faccia eurasiatica. Il proselitismo adesso è in calo o resta una costante? Lo chiediamo a Domitilla Savignoni, giornalista del Tg5, che per “Eurasia e jihadismo” ha curato il tema caldissimo e centralissimo “Comunicare il terrore e il ruolo dei media”. “Non possiamo dire che c’è diminuzione del proselitismo, anche per questo le più importanti società del mondo di internet hanno deciso di lavorare di squadra per contrastare le diffusioni online delle istanze terroristiche. Abbiamo assistito a un anno in cui il ritmo della pubblicizzazione propagandistica è diminuito, soprattutto in questi ultimi mesi, ma ora è ripreso e mantiene ancora tutta la sua fascinazione verso certi generi di individui”. Le immagini più forti sono state anche censurate online per impedire la diffusione e la seguente fascinazione. “Sì, sia i grandi colossi del web che i social network hanno alzato una censura su quei video più atroci, penso alle esecuzioni degli ostaggi, a quelle immagini dei prigionieri giustiziati senza pietà, con metodi barbari, ripresi in montaggi dalla qualità cinematografica. Tra l’altro questa messaggistica molto spinta si è valutato non essere troppo pagante”. Lo Stato islamico ha sempre abbinato a quei video incentrati sulle esecuzioni spettacolarizzate, altri che riprendevano la vita comune, le immagini della quotidianità, o anche quelle che riguardavano le fasi di gestione amministrativa, la distribuzione del pane, la cura delle strade: in un flash, le scuole abbinate ai campi di addestramento dei bambini soldato. Dieci giorni fa è arrivato da Mosul, mentre la città era il centro della spinta offensiva di riconquista della Coalizione internazionale a guida americana di cui parlava Bressan, un video che riprende una monotona normalità: un modo per passare un messaggio di tranquillità e superiorità ai proseliti. “Quella dei video violenti era la prima fase, il proxy per farsi conoscere e per affermarsi a livello globale sulle altre forze jihadiste. Ora tra l’altro si sono più concentrati sul Darkweb”, spiega Savignoni. Che cos’è e come funziona? “Il Darkweb (anche Deep Web o Darknet, ndr) è un internet parallelo fatto di pagine sommerse che possono essere visitate solo atraverso browser speciali e per accedere a certi siti devi avere per forza l’invito da chi è già dentro”. Pochi giorni fa è stata diffusa la notizia secondo cui la Direction Nationale du Renseignement et des Enquetes Douanieres francese e gli omologhi interni all’Fbi americano stanno collaborando proprio per tracciare le comunicazioni sul Darkweb dei gruppi terroristici.

L’IMPORTANZA DELLA VIA DELLA SETA

L’appeal che ancora emana lo Stato islamico è forte, ci spiega Savignoni, mentre il gruppo resta una minaccia nonostante gli arretramenti territoriali, aggiunge Bressan. È una contingenza con cui è necessario fare ancora i conti — e l’Isis non è soltanto l’unico gruppo terrorustico attivo,  ricordano i due autori — ma è la conclusione del loro volume, a firma di Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, che apre spiragli positivi. Scrive Politi: “Poiché le paci costano meno delle guerre, ma comunque hanno bisogno di essere finanziate, almeno nelle fasi di transizione, la Nuova Via della Seta potrà generare quella ricchezza in grado di alimentare, insieme ad altri contributi internazionali, la ricostruzione e la pace tra Israele, Palestina e Syraq, se l’economia mondiale non peggiorerà”. Secondo gli analisti è questa la motivazione che lega l’interesse alle dinamiche attuali alle analisi per i progetti di sicurezza della fondamentale linea geoeconomica che lega l’Asia e l’Europa, territori al momento divisi, anche geograficamente, dalla presenza di minacce importanti, come per esempio il Califfato (da combattere tanto nel warfare fisico che in quello cyber). Se la Via della Seta funzionerà, si porterà dietro stabilità e dunque riduzione dell’humus su cui attecchiscono le istanze radicali.

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