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Cosa (non) si sa dell’omicidio di Aldo Moro. Il rapporto della commissione Fioroni

Ci sarà ancora parecchio da scavare e usciranno ancora importanti novità dal lavoro della commissione d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. La seconda relazione, presentata il 21 dicembre dal presidente della commissione, Giuseppe Fioroni (Pd), sintetizza un anno di lavoro con 100 mila documenti acquisiti e conferma che quella vicenda si è svolta in modo molto diverso da come l’abbiamo conosciuta. Un covo non individuato, le tracce di sangue riconducibili ai brigatisti, la sottovalutazione dell’allarme che arrivò dal Medio Oriente, il fondamentale ruolo dei palestinesi nella trattativa, il traffico d’armi e l’oscura figura del titolare del bar Olivetti in via Fani sono alcuni dei passaggi più importanti ricostruiti nella relazione e che andranno approfonditi nei prossimi mesi: la commissione è prorogata fino alla fine della legislatura, ma sarebbe davvero opportuno che potesse proseguire anche in quella successiva.

Il covo alla Balduina. Sembra ormai certo che al quartiere Balduina di Roma, a pochissima distanza da via Fani, ci fosse un covo che forse fu la prima prigione di Moro. Si parlò subito di palazzine che potrebbero essere appartenute allo Ior, la banca del Vaticano, perché si è sempre cercato un garage dove le auto brigatiste si sarebbero subito dirette. Le indagini dell’epoca non portarono a niente, anche se l’ennesimo indizio è giunto dall’audizione del 29 giugno di Mario Fabbri, all’epoca del sequestro in servizio all’ufficio politico della Questura e dal novembre successivo al Sisde. Fabbri effettuò i primi rilievi sulla Fiat 132 ritrovata in via Licinio Calvo e nella quale c’era una coperta. Un cane inviato subito dalla Questura l’annusò ma, ha detto Fabbri, “non fece più di venti metri” fermandosi all’altezza delle scale che portano verso viale delle Medaglie d’oro. In quelle palazzine sembra abbiano abitato soggetti legati in qualche modo al sequestro, tra cui una persona vicina alla Raf, un’altra dell’Autonomia romana e (dopo il sequestro) un brigatista. E’ evidente che dimostrare la presenza di quel covo farebbe di per sé riscrivere la storia del rapimento.

I brigatisti feriti. Riesaminando gli atti dell’epoca, la commissione d’inchiesta ha avuto la prova che in tre auto Fiat usate in via Fani furono riscontrate tracce di sangue. Dunque, almeno un brigatista rimase ferito: non si sa come né i br l’hanno mai rivelato. Nella relazione, viene specificato che “è in corso un’attività volta alla attribuzione dei profili genetici che sono stati isolati da mozziconi di sigaretta che erano stati sequestrati all’interno della Fiat 128 familiare con targa CD, utilizzata dagli attentatori per arrestare la marcia dell’auto che ospitava l’onorevole Aldo Moro”. Uno dei profili è del proprietario del mezzo, ovviamente estraneo ai fatti. Altri quattro profili (due riconducibili a uomini e due a donne) sono stati estrapolati dai reperti del covo di via Gradoli. Alcuni degli interessati rifiutano però di sottoporsi agli esami: nella relazione si legge che “i brigatisti individuati e, in caso di latitanti o deceduti, i loro prossimi congiunti sono stati tutti rintracciati; alcuni hanno prestato il loro consenso a sottoporsi al prelievo”.

L’allarme sottovalutato e il ruolo dell’Olp. Un’altra conferma riguarda il famoso messaggio inviato dal colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi di Beirut e “uomo” di Moro: il 17 febbraio 1978 scrisse di una “operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei, che potrebbe coinvolgere il nostro Paese”. La sua era una fonte palestinese dell’Fplp. Il lavoro della commissione ha confermato che l’allarme fu sottovalutato e di fatto, è scritto nella relazione, “oggetto di una trasmissione prevalentemente burocratica ai centri locali”. Il 17 marzo Giovannone riferì che “George Habbash, contattato stanotte da Arafat… sin dalle prime ore di stamattina ha attivato i suoi elementi in Europa Occidentale per avere notizie [sul rapimento]”. Lo stesso Yasser Arafat cercò di un contatto qualificato, soprattutto tramite esponenti della Raf tedesca, per giungere a dialogare con le Br. La commissione ha rintracciato i documenti datati 24, 25 e 28 aprile dai quali emergono forti aspettative su un esito positivo del sequestro, periodo nel quale Giovannone era rientrato a Roma, come risulta da una conversazione del 13 aprile 1978 con Nicola Rana al quale diceva di essere nella Capitale e a disposizione.

Mesi di trattative. In quelle settimane l’ottimismo cresceva, tanto che Nemer Hammad, il rappresentate dell’Olp a Roma, il 28 aprile aveva chiesto un incontro con il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, “per rappresentare la disponibilità e l’interesse della dirigenza Olp a una forma di collaborazione permanente tra i servizi di sicurezza palestinesi e quelli italiani”. All’improvviso all’inizio di maggio la trattativa si interrompe e si arriverà all’omicidio: la commissione presieduta da Fioroni ipotizza una rottura tra l’ala di Potere operario, vicina ai palestinesi, e quella vicina a Mario Moretti che deteneva Moro, anche se successivamente Moretti avrebbe tentato di riallacciare i rapporti con l’Olp perché il colonnello Giovannone, in un messaggio del 22 giugno, riferì che “le Brigate rosse italiane avrebbero fatto pervenire in questi giorni personalmente a George Habbash, leader del Fplp, copia di dichiarazioni rese da Onorevole Moro nel corso interrogatori subiti”. Com’è noto, parallelamente il Psi aveva avviato una propria trattativa tesa alla liberazione di Moro e nella relazione vengono riferiti due elementi di cui Formiche.net ha scritto il 23 novembre: Bettino Craxi ebbe tre lettere di Moro prima che fossero rese pubbliche e Claudio Signorile fu convocato da Cossiga la mattina dell’omicidio, quasi dovesse essere “testimone”. L’ex direttore di Critica sociale, Umberto Giovine, ha infatti detto alla commissione che toccava a lui ritirare quelle lettere in una libreria per consegnarle a Craxi, rivelando un canale finora sconosciuto. Signorile, invece, fu convocato alle 9 dall’allora ministro dell’Interno che alle 11 ricevette la notizia del ritrovamento del cadavere: all’inizio Cossiga gli apparve ottimista sulla possibile liberazione, ma secondo Signorile “l’impressione che ebbi allora fu che ero stato chiamato lì per assistere alla telefonata. Perché mi chiami? E perché chiami me? Perché sono la persona più esposta sul versante…” della trattativa. Nell’audizione il presidente Fioroni ipotizzò anche che Cossiga sapesse della morte fin dalle 7: va ricordato che Valerio Morucci telefonò a Sereno Freato alle 12.15 e che la notizia venne diffusa dall’Ansa solo alle 13.59.

La grazia e l’esecuzione. Tra i tanti aspetti da sviluppare, la commissione Moro farà accertamenti “sulla vicenda della grazia che il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, avrebbe inteso concedere a Paola Besuschio e alla visita di un ufficiale dei Carabinieri nell’ospedale dove la brigatista si trovava ricoverata in stato di detenzione al fine di chiederle di sottoscrivere la domanda di grazia” e per verificare le modalità e l’orario dell’uccisione di Moro: lo scopo è capire se l’omicidio fu affrettato per evitare ogni trattativa e se il gruppo di fuoco fu diverso da quello conosciuto. Bisogna ricordare, infatti, che il giornalista Paolo
Cucchiarelli, nel libro “Morte di un Presidente”, con due perizie realizzate
ad hoc demolisce le “verità” balistiche e che il 4 febbraio la commissione ascoltò
monsignor Fabio Fabbri, stretto collaboratore di monsignor
Cesare Curioni, ispettore generale dei cappellani carcerari nel
1978 e una delle persone che più si impegnò per la liberazione di
Moro. Monsignor Fabbri ha raccontato di aver avuto per primo le foto dell’autopsia di Moro e che monsignor Curioni quando le vide disse: “So chi l’ha ucciso”, riferendosi a una rosa di sei fori di proiettile che non toccavano il muscolo cardiaco. Si riferiva alla tecnica di un giovane che aveva conosciuto nel carcere minorile Beccaria e che era un killer professionista, Giustino De Vuono.

Bar e traffico d’armi. Ulteriori approfondimenti, infine, riguarderanno la storia del bar Olivetti in via Fani e sul suo titolare, Tullio Olivetti. Il bar era stato chiuso per uno “strano” fallimento qualche mese prima del sequestro e durante i lavori della commissione è stato detto chiaramente che con un bar aperto a pochi metri quell’azione sarebbe stata impossibile. Su Olivetti sono emerse prove di favoritismi da parte degli investigatori dell’epoca. La commissione scrive nella relazione che “non è stato ancora chiarito in maniera definitiva il significato di tali omissioni investigative. Tuttavia, occorre rilevare che la vicenda fa emergere un possibile intreccio tra il caso Moro e una corrente di traffico d’armi che coinvolgeva sia la criminalità organizzata che l’area mediorientale e sul quale occorre compiere ulteriori e – si auspica – definitivi approfondimenti”. Molto si dovrà capire, infine, sulla scuola Hypérion a Parigi (che potrebbe essere stata un coordinamento tra organizzazioni terroristiche europee e Flp) e sul vero ruolo di Giorgio Conforto, agente del Kgb (e forse anche di Cia e Sismi), che avrebbe di proposito fatto arrestare Valerio Morucci e Adriana Faranda a casa di sua figlia Giuliana in via Giulio Cesare.

I lavori della commissione Moro sembrano disegnare la sceneggiatura di una spy story, invece è un pezzo fondamentale della storia d’Italia che ancora non conosciamo davvero.



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