C’è una domanda che serpeggia in questi giorni negli ambienti delle banche popolari, finite in mezzo al guado dopo che il Consiglio di Stato ha smontato la riforma targata Matteo Renzi del febbraio 2015. Ovvero, quanto potrebbe costare agli istituti il blitz dei giudici di Palazzo Spada sul riassetto delle popolari? Parecchio se la Corte costituzionale, cui spetta l’ultima parola, dovesse accogliere in toto la linea del Consiglio di Stato e cioè che gli azionisti che decidono di uscire dal capitale devono essere rimborsati subito e per intero e non, come prevede la circolare applicativa di Bankitalia, relativamente alla salvaguardia del patrimonio bancario. Entriamo nei dettagli.
CHI E’ SPA E CHI (ANCORA) NO
Punto primo: delle dieci popolari sopra gli 8 miliardi di attivo oggetto della trasformazione in spa secondo il decreto Renzi, sette hanno già deliberato il cambio dello statuto, l’ottava, ovvero l’Etruria ha preso altre vie (la risoluzione insieme con Banca Marche, Cari Chieti e Cari Ferrara), mentre le altre due, Sondrio e Bari, hanno congelato le assise (spinte anche dall’intervento dei rispettivi tribunali civili che hanno bloccato l’iter) in attesa che il prossimo 12 gennaio i giudici tornino sull’argomento, decidendo se confermare o meno lo stop alle disposizioni attuative di Bankitalia. Ma soprattutto di una pronuncia definitiva della Consulta sulla costituzionalità della riforma. Che, e non è un dettaglio, non riguarda solo le modalità di rimborso agli azionisti (diritto di recesso) ma anche il fatto di essere ricorsi al decreto legge, previsto per situazioni di emergenza, che a detta del Consiglio di Stato non sussisteva.
IL GIALLO DEL MILLEPROROGHE
Il governo ha provato, a parole, a metterci una pezza ventilando un decreto per la proroga dei termini per la trasformazione in spa, scaduti, è bene ricordarlo, lo scorso 27 dicembre. L’intenzione dell’esecutivo era quella di congelare il tutto fino alla pronuncia della Consulta. Ma il decreto non è arrivato e la proroga è rimasta poco più che una sensazione. E qui nasce il problema delle popolari, finite nell’incertezza più assoluta. Soprattutto gli istituti di Bari e Sondrio che attendono lumi dal Cds, in attesa che la Consulta faccia definitivamente chiarezza (ma il verdetto non arriverà prima di 4-6 mesi)
COSI’ LA BOMBA-RECESSO RISCHIA DI SCOPPIARE
Tutto ruota intorno ai rimborsi che le banche devono a tutti quei soci disposti a vendere le proprie azioni in cambio di un prezzo pattuito con la banca. Nella sua circolare attuativa della riforma Bankitalia spiega come il diritto di recesso del socio può essere limitato o escluso dalla stessa banca, qualora un rimborso pieno o non dilazionato pregiudichi il patrimonio dell’istituto. In altre parole, per non intaccare i coefficienti patrimoniali fissati dalla vigilanza, gli istituti possono soddisfare solo parte delle richieste. Il Consiglio di Stato ha però sospeso tale prerogativa, aprendo potenzialmente la strada a una valanga di contenziosi di chi si è visto riconoscere solo parte del dovuto. Per le banche popolari potrebbe essere un duro colpo.
DA UBI A CREVAL, CHI STA MEGLIO (O PEGGIO)
Per fare un esempio, lo scorso febbraio, Ubi banca ha fatto sapere di voler pagare il 5% delle richieste di recesso pervenute. In pratica, 13 milioni su 250 milioni. Il consiglio di sorveglianza dell’istituto si è infatti avvalso proprio della facoltà di limitare il rimborso delle azioni per non far scendere il coefficiente di capitale primario. Ma, venendo meno la disposizione a tutela delle banche per effetto del Cds ecco che qualcuno potrebbe chiedere il rimborso per intero, facendo salire il conto. E le altre banche? Secondo alcuni calcoli riportati dal Fatto Quotidiano Pop Vicenza ha negato a tutti il diritto di recesso (richieste per soli 1,7 milioni) come Veneto Banca (14 milioni). Per Popolare Milano e Banco Popolare, che si stanno fondendo, il conto è di 207 milioni. Creval ha richieste per 8,5 milioni. E Bari?
BARI RISCHIA GROSSO
Chi rischia grosso è però la Popolare di Bari, (69 mila azionisti) il cui tribunale civile ne ha stoppato la trasformazione in spa, ha infatti fissato il valore di recesso a 7,5 euro per azione, attribuendosi una valutazione di 1,2 miliardi di euro. Il prezzo, decisamente generoso, è stato fissato sull’onda della convinzione di dover garantire solo una parte dei rimborsi, come fatto dalle altre popolari. Una proroga dei termini via Milleproroghe, avrebbe consentito alla banca pugliese di evitare il rimborso. Ma la proroga non è arrivata e 7,5 euro ad azione è un prezzo abbastanza appetitoso per far scattare richieste di massa con evidenti danni al patrimonio dell’istituto. L’importo era comunque frutto di una svalutazione. Già ad aprile scorso infatti il prezzo per azione era passato da 9,15 euro agli attuali 7,50 euro, subendo un calo del 21%.
LO SCENARIO
Ricapitolando, se la Consulta accoglierà la tesi della giustizia amministrativa, anche le sette popolari che ci sono già trasformate in spa potrebbero ritrovarsi a soddisfare in toto le richieste di recesso. Per quanto riguarda Bari, non essendo arrivata la proroga semestrale, incombe il cambio di statuto, con evidenti inconvenevoli sul fronte della liquidazione delle azioni. A questo punto che cosa dovrebbero fare le banche in questione? Prepararsi al peggio, ovvero conferma dello stop ai rimborsi parziali da parte del Cds e stroncatura generale della riforma da parte della Consulta, iniziando ad accantonare fondi a sufficienza a fronteggiare l’eventuale tsunami?