Nella prima conferenza stampa ufficiale dopo la vittoria elettorale, Donald Trump tra le altre cose ha ammesso parzialmente che la Russia è dietro agli attacchi cyber ai democratici (“Penso sia stata la Russia”, ha detto, “ma anche altri”). L’hacking è stato protagonista di un’indagine condotta da tutte le agenzie di intelligence americane che hanno concluso: Mosca ha messo in piedi una strategia offensiva per facilitare la vittoria di Trump e a danno di Hillary Clinton. Per chi si è perso le puntate precedenti: durante la campagna elettorale hacker russi, considerati “con un alto grado di fiducia” – come ha detto il direttore della National Intelligence James Clapper – legati al Cremlino, hanno sottratto migliaia di documenti confidenziali ai democratici, informazioni che sono state poi diffuse online (tra gli altri da WikiLeaks) e che hanno contribuito ad alimentare fake news, propaganda e disinformazione, screditando la candidata dem. Secondo la testimonianza di martedì al Senato del capo dellFbi James Comey – che ricordiamocelo, i democratici non sopportano perché pochi giorni prima del voto riaprì l’indagine sull’emailgate di Clinton, salvo poi richiuderla perché il fatto non sussisteva – anche i sistemi informatici dei Repubblicani sarebbero finiti sotto attacco, solo che poi questi hackeraggi non sono stati seguiti da pubblicazioni: è una linea già battuta, che per le intelligence americane significa una sola cosa, chi ha sottratto quei dati voleva far male solo alla Clinton.
LA RUSSIA HA LEGAMI CON TRUMP (?)
Proprio da qui, dall’intromissione all’interno dei documenti dei Rep, parte il caso del momento: un dossier di 35 pagine, citato un paio di volte nell’indagine ufficiale dei servizi, che conterrebbe dati scottanti sulle relazioni tra Trump e la Russia. Il dossier, i cui contenuti erano stati annunciati da uno scoop della CNN, è stato pubblicato per intero da BuzzFeed dopo essere stato sottoposto prima all’Amministrazione e poi al presidente eletto durante un vertice molto riservato con i capi delle intelligence tenutosi venerdì scorso alla Trump Tower, su cui il vice presidente eletto Mike Pence, presente, ha commentato che tutto s’è svolto nel massimo rispetto: anzi, è da dopo quel briefing sulla vicenda che Trump ha iniziato a parlare tiepidamente delle responsabilità russe nell’hacking, pur mantenendo le distanza dagli effetti dell’interferenza; anche perché sarebbe difficile per lui dire che la vittoria è frutto di una manipolazione sull’elettorato partita da Mosca (in effetti, non è troppo credibile che lo sia, almeno in modo esclusivo). Mercoledì anche Rex Tillerson, nominato prossimo Segretario di Stato da Trump e considerato uno con ottimi collegamenti e interessi piazzati in Russia durante la sua carriera da top manager della ExxonMobil, mentre era in audizione al Senato (da cui deve passare la conferma della nomina) ha detto che ipotizzare l’azione russa nel tentativo di influenzare le presidenziali è “una supposizione corretta”.
IL DOSSIER
Il dossier di cui si parla in questo momento pare sia da mesi (dall’autunno 2016″ per il New York Times) in circolazione tra le redazioni americane: “Chi glielo ha passato?” ha detto Trump in conferenza stampa, “forse le agenzie di intelligence, chi lo sa, e sarebbe una macchia sulla loro reputazione” ha detto, tornando ad attaccare i servizi. Il report è stato confezionato da un’ex spia inglese che ha nome e cognome, Christopher Steele, prima agente dell’Mi6 e ora titolare della privata Orbis Business Intelligence, inizialmente incaricato con contratto privato da sfidanti repubblicani durante le primarie e poi ingaggiato per continuare il suo lavoro anche dalla campagna Clinton (stante a quello raccontato dalla CNN e confermato dal New York Times). Proprio perché ormai quasi di dominio pubblico, le agenzie dei servizi americani avrebbero deciso di introdurlo tra i documenti d’inchiesta e di comunicarne l’esistenza a Trump e Amministrazione. Di cosa parla? Il dossier rivela diversi aspetti inquietanti su Trump, che però non sono al momento confermabili: si tratta di informazioni raccolte da Steele tramite fonti anonime, le quali avrebbero rivelato che Mosca ha carte in mano per ricattare Trump. Quali? Per esempio, si dice che Trump sia stato ripreso da telecamere nascoste dagli 007 russi in albergo di Mosca nel 2013 mentre chiedeva ad alcune prostitute di praticare una “golden showers” come sfregio dissacrante nei confronti dello stesso letto in cui avevano alloggiato tempo prima Michelle e Barack Obama (PornHub, noto sito porno, dice che sul suo portale le ricerche su “golden showers” sono schizzate in alto negli ultimi due giorni, e questo testimonia l’impatto del dossier sull’opinione pubblica). Ma ci sono anche altri elementi per cui secondo il dossier i russi avrebbero informazioni compromettenti da usare al momento giusto e con cui ricattare colui che tra otto giorni diventerà il presidente degli Stati Uniti. Si va oltre la (presunta) orgia moscovita: Michael Cohen, famoso avvocato di Trump, e Carter Page, consigliere di politica estera durante la campagna elettorale con ottime entrature in Russia, sarebbero andati tra luglio e settembre a Praga e a Mosca dove avrebbero incontrato funzionari governativi: tema del meeting, per dirla come in un film di spionaggio, abbiamo informazioni compromettenti su Trump, vedete di togliere le sanzioni e di smetterla con questa politica aggressiva nei nostri confronti altrimenti le facciamo uscire, avrebbero detto i russi. C’è anche un’altra questione che riguarda la vicenda dell’hacking: secondo i dati raccolti dall’agente inglese, russi e funzionari elettorali di Trump avrebbero collaborato passo passo durante la campagna, e il prezzo dell’aiutino di Mosca sarebbe il futuro laissez faire del presidente repubblicano su alcuni dossier caldi per la Russia – l’Ucraina per esempio. E inoltre: la collaborazione tra governo russo e entourage di Trump dura da cinque anni ed è nata da interessi economici ma aveva come traguardo la candidatura del magnate newyorkese.
I DUBBI
Sulle informazioni raccolte dalla società di intelligence privata inglese c’è molto scetticismo, che ruota fondamentalmente attorno a una questione: come ha fatto ad ottenere tutte quei dati un privato cittadino titolare di un’agenzia di intelligence nemmeno tra le più note del mondo, mentre nemmeno la Cia o le altre agenzie americane ne erano arrivate a conoscenza con i loro super-strumenti? Non è che per caso sono stati un po’ gonfiati?, si chiedono in molti: perché in effetti ci sono molti dubbi su come la storia possa stare in piedi. Per esempio, Cohen ha detto su Twitter di non essere mai stato a Praga in vita sua e ha postato la foto del passaporto chiuso; la smentita a questo pezzo della storia sarebbe facile, basterebbe aprire il documento di identità dell’avvocato per cercare il visto ceco. Il Guardian li ha definiti “straordinari ma non verificati documenti”, e il New York Times ha scritto un bell’articolo spiegando come mai un dossier “non verificato” abbia aperto una crisi per Trump (indirettamente si parla anche di giornalismo e di percezione nell’opinione). I primi effetti sono contro-Trump: durante la conferenza stampa di mercoledì il presidente ha sofferto molto le domande dei giornalisti, indirizzate parecchio sul dossier e sui rapporti con la Russia, è addirittura sbottato dicendo “sono germofobo” a proposito della richiesta di spiegazioni sulla golden shower, e il giornalista della CNN Jim Acosta è finito sotto il fuoco del presidente eletto innervosito e sotto le minacce del suo portavoce Sean Spicer (ti tolgo l’accredito alla Casa Bianca). Ma nel lungo tempo il dossieraggio grossolano sbattuto in prima pagina rischia di alimentare la sfiducia degli americani sui media (dai dati Gallup intorno al 68 per cento) e rivelarsi una carte a sostegno della più volte citata “caccia alle streghe” contro Trump.