Ricordare Giulio Andreotti e la sua relazione con gli Stati Uniti d’America significa ripercorrere la storia, spesso travagliata, del nostro rapporto transatlantico, dalle macerie della Seconda guerra mondiale al traguardo del G7 fino all’abbattimento del Muro di Berlino e, alla fine, di quell’ordine mondiale che aveva governato la politica estera per oltre quattro decenni.
Si tratta di una storia che inizia con il segno fortissimo di una figura che è stata fondamentale per il presidente Andreotti così come per il nostro Paese. Mi riferisco ad Alcide De Gasperi. Di lui il presidente Andreotti disse: “Ci insegnò innanzitutto una grande dignità nel trattare con l’estero, pur essendo consapevole che l’Italia aveva allora un bisogno senza alternative dell’aiuto altrui”. Questa lezione, vedremo, ha accompagnato Andreotti per tutta la sua esperienza politica. Allo stesso modo con cui ha sempre sottolineato come “la chiarezza di De Gasperi nel considerare l’Alleanza atlantica ben più di un patto militare ha illuminato tutto il cammino successivo e ci è stato di guida”.
Nel corso della sua carriera, Andreotti ha avuto molti incarichi di governo grazie ai quali ha avuto modo di conoscere tutti i vertici delle amministrazioni americane. Tuttavia, quello che ci ha lasciato come appunto, tuttora di una certa attualità, è in queste sue parole:
“Senza alcun dubbio la vita pubblica degli Stati Uniti ruota attorno al presidente; ma da tempo – notava Andreotti sul finire degli anni 80 – mi sono convinto che il segreto per un rapporto politico di lunga durata sta nell’avere relazioni approfondite anche con il Congresso, nel quale i personaggi chiave rimangono a lungo come autorevoli punti di riferimento. E in ambedue i rami del Campidoglio, gli oriundi italiani sono ormai molti e prestigiosi e costituiscono un anello prezioso di congiunzione con noi”.
L’atteggiamento lucido e disincantato di Andreotti lo si ritrova con ogni evidenza anche nel rapporto con Washington e probabilmente strapperà qualche sorriso la rilettura, oggi, a qualche lustro di distanza, di quello che segnalava il tante volte presidente del Consiglio. “Il fascino di un ricevimento alla Casa Bianca sembra concentrare tutte le aspirazioni, senza avvertire la ritualità protocollare di certe iniziative. Tra l’altro – aggiungeva non senza quel pizzico di ironia tipico del suo carattere – il preparatore dei discorsi di benvenuto non si sforza troppo nel variare le espressioni. Così, per uno come me, si sottolinea la lunga esperienza. Mentre per i presidenti novizi si tesse l’elogio della gioventù”. Mi preme evidenziare come ogni riferimento a persone o fatti successivamente accaduti sia puramente casuale.
IL DIBATTITO SU GIULIO ANDREOTTI E GLI STATI UNITI VISTO DA UMBERTO PIZZI. LE FOTO
Tornando alla vicenda storica, non possiamo non partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Allora, ricorda Andreotti nei suoi scritti, “incombeva l’incubo del futuro politico dell’Italia. La dura contrapposizione mondiale si ripercuoteva da noi con non minore crudezza”. E se la scelta occidentale veniva letta come frutto di una necessità economica, va detto che è Andreotti stesso a chiarire che si trattava di “una spiegazione molto parziale”. “Il dissenso centrale – ragionava – era la libertà oggettiva”. D’altronde, il nuovo corso della vicenda italiana si determina proprio nel viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti nel febbraio del 1947. Esattamente settanta anni fa, con il cosiddetto Piano Marshall, potrà iniziare la ricostruzione del nostro Paese. In seguito alla vittoria democratica del 1948 e all’azione fortemente riformatrice di De Gasperi, si manifestò – già allora – una circostanza che agli occhi, anche giornalistici, di Andreotti colpì molto. “Mentre le nostre azioni erano quotatissime per la chiarezza in politica internazionale, il prestigio di De Gasperi andava ridimensionandosi a seguito di una ritenuta tiepidezza anticomunista”.
Fu alla morte dello statista democristiano che le preoccupazioni americane per un possibile slittamento a sinistra emersero con un certo vigore. Allora era ambasciatrice a Roma la signora Luce, ricordata da Andreotti per il suo “fascino estetico e intellettuale unito – aggiungeva con sarcasmo – a un fervore cattolico tipico di una convertita dal protestantesimo episcopale”. La signora, che ebbe, o comunque tentò di avere, grande influenza sulla politica interna italiana, era la moglie di Henry Luce, il grande editore di Time, Life e Fortune, e lei stessa era stata condirettrice di Vogue e Vanity Fair. Al pressing dell’ambasciatrice, Andreotti cercava di offrire rassicurazioni spiegando, e uso parole sue, che: “La ricerca in atto di nuovi equilibri dentro e fuori la Democrazia Cristiana non andava vista come un trauma o un’inversione di rotta. Le ricordai – scrive Andreotti – che De Gasperi ripeteva spesso che nella politica italiana c’era bisogno di cure mediche e non di interventi chirurgici”. Allora, a impensierire la Luce, erano la legge elettorale proporzionale e l’avvicinarsi della scadenza del settennato di Einaudi al Quirinale. L’ambasciatrice era preoccupata in particolare da alcune posizioni dell’allora presidente della Camera, Gronchi. “La vigilanza verso i comunisti era più che doverosa ma, aggiungeva Andreotti, non si poteva dimenticare che in Italia gli adempimenti dell’Alleanza atlantica si svolgevano con regolarità e senza sabotaggi”.
Fatto sta che Clare Boothe Luce informò Washington che l’unico punto certo era che dopo Einaudi non sarebbe stato scelto il presidente della Camera. Ventiquattro ore dopo quell’informativa, veniva eletto Giovanni Gronchi. Nei suoi appunti, Andreotti non dissimula il suo commento quasi ironico così come, con lo stesso spirito, non manca di sottolineare l’esito di certe previsioni colme di scetticismo come quella del celebre giornalista Joe Alsop, il quale profetizzò che entro sei mesi l’Italia sarebbe stata comunista. Tanto il presidente Gronchi quanto la DC ressero e seppero tenere ferma l’Alleanza atlantica.
Il ruolo di Villa Taverna torna spesso nelle memorie di Andreotti e si tratta evidentemente di uno snodo significativo nelle relazioni bilaterali fra Italia e Stati Uniti.
Sul piano politico e istituzionale è improbabile sbagliare nel dire che il vero salto di qualità nel personale rapporto di Andreotti con gli Usa avviene in occasione della sua nomina a ministro della Difesa, nel 1959.
Si trattò di un passaggio non breve – rimase in quel dicastero per ben sette anni – e nient’affatto irrilevante per le relazioni che ne conseguirono. Grazie a quell’incarico ebbe modo di visitare più volte il Pentagono e anche diverse basi militari sparse sul territorio americano. Inoltre, fu lì che ebbe modo di sviluppare un rapporto di amicizia con il collega, capo della Difesa statunitense, Robert McNamara. Come sapete, l’esperienza politica di Andreotti è ricca di aneddoti capaci di strappare un sorriso e, fra quelli di quel periodo, mi ha colpito, e capirete il perché, questo suo ricordo: “Un giorno (McNamara) rilasciò a Ruggero Orlando una dichiarazione talmente elogiativa nei miei confronti che la Rai-Tv pensò bene di censurare, non appartenendo io ai protetti della Tv”. Una buona conferma che le polemiche sulle scelte di viale Mazzini non sono solo cronaca recente.
Per parte sua, Andreotti conobbe personalmente molti presidenti e il primo che incontrò fu Eisenhower, che venne in visita a Roma in giorni segnati da una pioggia che Andreotti descrisse, non senza divertenti particolari, per la straordinaria copiosità. Un altro incontro significativo accadde quando Kennedy venne in Italia il 1° luglio 1963. In quei colloqui, Andreotti ebbe modo di sollecitare il presidente sulle relazioni con la Santa Sede e su altri dossier importanti.
Rimase molto colpito, a sua volta, dal cenno fatto da Kennedy sulla necessità di inviare studenti europei in America e studenti americani in Europa per “contribuire a lungo termine a comprenderci meglio e ad aiutare la rispettiva crescita con modelli meno distanti”. In quel frangente, JFK visitò sia Roma che Napoli e Andreotti fu presente in entrambe le occasioni, non mancando di sottolineare le differenze fra le due città e le due popolazioni e, più in generale, notò la difficoltà del servizio segreto americano a gestire l’entusiasmo degli italiani per la presenza di quell’ospite così importante. La notizia della morte di Kennedy arrivò mentre Andreotti era al ministero della Difesa. Scelse l’agenzia “Concretezza” per scrivere un articolo nel quale ebbe modo di sintetizzare così il suo giudizio. “Dell’efficace servizio di John Fitzgerald Kennedy alla causa della pace è così poco lecito dubitare che lo hanno dovuto riconoscere perfino Kruscev e Togliatti”.
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Alla Casa Bianca fu quindi il turno di Lyndon Johnson, che Andreotti conobbe già nel 1962 quando era “vice”, rimanendo stupito dalla sua “esuberanza texana”. Con lui la relazione venne cementata grazie all’accenno fatto da Andreotti al centro di ricerche spaziali di Houston, di cui il presidente Johnson andava fierissimo.
Alla Casa Bianca Andreotti andrà da presidente del Consiglio nel 1973, su invito di Nixon. Più del ricevimento, valsero i colloqui con il presidente cui assisteva anche Kissinger. L’allora premier ebbe modo di tranquillizzare il padrone di casa circa la politica atlantista dell’Italia. Non solo. Ebbe modo di sollecitare la “necessità di dare più impulso alla collaborazione americana preventiva con noi europei; anche per non trovarci nella disinformazione che aveva creato disagi nel passato quando, talvolta, apprendemmo di alcune iniziative prima dai sovietici che da Washington”. Andreotti spiegò che “anche la conoscenza – obiettiva e psicologica – sui punti caldi del pianeta di qualcuno più vicino alle aree in crisi poteva giovare agli Usa”.
Il riferimento era in particolare al Medio Oriente. In occasione di quel viaggio americano, Andreotti si trasferì a New York per l’assemblea delle Nazioni Unite e qui partecipò a un’iniziativa del Council on Foreign Relations e andò al New York Times per rispondere a un “fuoco di fila” di domande, tutte rigorosamente off the record.
Con il più forte partito comunista dopo quello sovietico e con una non banale litigiosità fra i partiti della maggioranza, si avvertiva tutta l’apprensione che c’era nei confronti dell’Italia.
Obiettivo dell’allora presidente del Consiglio era quello di spiegare come la lineare fedeltà atlantica e lo spirito europeo dei governi italiani poteva correggere efficacemente l’impressione di instabilità presente da quella parte dell’oceano. La missione di Andreotti fu positiva e lo stesso Nixon disse, fuori dal protocollo, che “dopo aver parlato con lui posso dire che continua l’opera di De Gasperi, uomo forte di quelli che occorrono al Paese, al popolo, al mondo libero”. Lo stesso Andreotti, nel suo diario, ammetteva di sapere che questo elogio non avrebbe avuto un gran peso nella lotta fra i partiti e neppure all’interno della DC. Poté quindi non essere molto sorpreso quando, il giorno dopo, il quotidiano socialista L’Avanti titolava a quattro colonne il servizio sul suo viaggio così: “Arroganza di Andreotti alla ricerca di una investitura da parte di Nixon”. Chissà, oggi forse parleremmo di post verità… Fatto sta che la politica italiana non ha mai fatto sconti e neppure in quel tornante della storia così difficile.
Arriviamo infatti al 1976 e a quelle elezioni politiche che decretarono la vittoria di misura della DC, ma anche un notevole risultato favorevole per il PCI. I comunisti passarono da 179 a 228 deputati e da 94 a 116 senatori. La governabilità non era facile.
Moro e Rumor andarono in America per il vertice G7. Ci fu il giallo di una diffida all’Italia circa un possibile coinvolgimento comunista. Germania, Francia, Inghilterra e Stati Uniti presero una posizione clamorosa e inusuale, segno della grande tensione di quel periodo. Al rientro, fu lo stesso Aldo Moro a suggerire al presidente Leone di affidare l’incarico di formare il nuovo governo ad Andreotti, proprio per fugare le preoccupazioni internazionali. Nacque così il monocolore che il consigliere economico di Andreotti, Luigi Cappugi, definì della “non sfiducia”. Il riscontro delle quattro cancellerie fu in effetti positivo.
Qualche settimana dopo si svolsero le elezioni americane e alla Casa Bianca arrivò Jimmy Carter. Pur nella transizione fra le due amministrazioni, era importante che da Washington giungesse un segnale di attenzione verso l’Italia. Così, l’allora ambasciatore a Roma John Volpe organizzò un incontro fra Andreotti e il presidente uscente Ford. Un punto a favore per il Paese che smentiva l’idea che la benevolenza parlamentare comunista comportasse una messa in quarantena delle relazioni italo-americane. L’incontro con Ford andò molto bene.
Più difficile risultò spiegare a Kissinger il senso della nuova formula politica. Kissinger, ci lascia traccia Andreotti, escludeva che i comunisti si fossero convertiti alla donazione di sangue, perciò o sbagliava lui nell’accettare o facevano loro male i calcoli di convenienza. Kissinger, ricorda l’allora presidente del Consiglio, non faceva mistero di propendere alla prima ipotesi. La risposta di Andreotti? “Lo stato di necessità (bastava avere un pallottoliere) sarebbe già bastato, ma io andai oltre e sviluppai il mio vecchio convincimento della convertibilità – senza fretta impossibile – dei peccatori politici”. Anche in quel viaggio, Andreotti ebbe un’agenda fitta con interviste a Newsweek e Washington Post e incontri in think tank come il Brookings. Il viaggio fu utilissimo, concluse Andreotti, e non solo per frenare lo scivolamento della lira.
Insediato Carter, volle subito inviare in Italia il vicepresidente Mondale che subito manifestò l’opportunità di “sviluppare d’ora innanzi una crescente cooperazione fra i due governi”. L’invito di Carter alla Casa Bianca arrivò presto. Con lui, i colloqui furono centrati sui temi della distensione, ma anche sulla situazione mediorientale rispetto alla quale il presidente Carter caldeggiava un intervento di Andreotti presso l’OLP per favorire la rimozione della loro pregiudiziale contro il diritto di Israele all’esistenza.
Secondo Andreotti, il progetto di pace immaginato da Carter peccava di eccesso di ottimismo e l’idea di un reciproco riconoscimento in un successivo vertice a Ginevra non si realizzò. La franchezza nei rapporti instaurati con la nuova amministrazione fece pensare ad Andreotti a un “buon contributo alla politica estera italiana”. Rimase quindi colpito, e negativamente, da una dichiarazione qualche mese dopo del dipartimento di Stato circa “il non mutato atteggiamento del governo americano nei riguardi dei partiti comunisti, compreso quello italiano”. L’ambasciatore americano del tempo, Gardner, si disse estraneo a quella che appariva come una bella e buona interferenza nella politica interna italiana alle prese con una situazione assai delicata. L’episodio amareggiò molto Andreotti. Nelle settimane successive vi fu il rapimento e il tragico assassinio di Aldo Moro. Carter aveva scritto ad Andreotti una lettera che lo stesso presidente del Consiglio giudicò di grande sostegno e quando tornò a Washington per un Consiglio Atlantico non raccolse che lodi per l’Italia, nonostante il suo governo fosse passato dall’astensione al voto favorevole dei comunisti. La nota di Andreotti è in questo caso di soddisfazione amara: “Quando si parla direttamente e non si lascia la parola ai portavoce, si evitano molti errori e molti equivoci sono dissipati”. Erano i tempi di Camp David, di vorticosi sviluppi nel Mediterraneo con il diverso ruolo dell’Egitto e le perplessità di Libia, Iraq e Giordania.
Sullo sfondo, si fa per dire, il ruolo del titolare del Cremlino, Breznev. La collaborazione fra Carter e Andreotti, fra Stati Uniti e Italia, fu particolarmente intensa e, quando nell’agosto del 1979 Andreotti lasciò Palazzo Chigi, ricevette dalla Casa Bianca una lettera più che gentile nella quale il presidente americano volle evidenziare il valore della collaborazione avuta.
Nel 1980 Andreotti era stato eletto alla presidenza della commissione Esteri della Camera e la mattina del 5 novembre di quell’anno, alle 7, volle andare dall’ambasciatore Gardner per commentare l’elezione del nuovo presidente, Ronald Reagan. Anche qui vale la pena di leggere gli scritti di Andreotti, quando per esempio ricorda un episodio particolare legato proprio al nuovo inquilino della Casa Bianca. “Il presidente degli Stati Uniti che vi fa domandare, mentre siete a Washington, se può chiedervi un favore personale suscita qualche emozione. E non mi venne certo in mente – aggiunge con sarcasmo – che potesse trattarsi di ‘cortesie’ tipo quella di trattenere extra legem una persona, come nei giorni neri di Sigonella”. In quel caso, si trattava di un appuntamento con l’arcivescovo di New Orleans. Oggetto dell’incontro caldeggiato da Reagan era quello di favorire l’esposizione del Cristo Risorto nella Expo della Louisiana. Il presidente americano ci teneva moltissimo.
Vi fu un grande attivismo del governo e Andreotti ricorda i ministri dei Beni culturali che allora si succedettero, Enzo Scotti e Nino Gullotti. L’operazione era riuscita non senza difficoltà quando un prelato, contrario al prestito, ne dette notizia alla stampa suscitando un rumore tale che non se ne fece più nulla. Reagan comprese. L’arcivescovo, ricordava Andreotti, meno.
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Questo episodio, citato nel libro “Visti da vicino” dedicato agli Usa, non deve trarre in inganno. Gli anni dei due mandati di Ronald Reagan furono centrali e per certi versi cruciali per la sua vita politica e istituzionale. L’incarico di ministro degli Esteri che ebbe dal 1983 al 1989 lo portò a svolgere un ruolo di crocevia importantissimo nella dimensione delle più complesse relazioni internazionali. Fu quella la stagione in cui emerse con maggiore chiarezza la capacità italiana di dialogare tanto con i Paesi del Mediterraneo quanto con l’Urss. Andreotti, con i suoi rapporti speciali con figure come Arafat e Gheddafi, divenne l’emblema di una politica che, senza tradire il vincolo atlantico, veniva definita filo araba e filo sovietica. Come spesso accade, le cronache ci descrivono una realtà diversa, seppur non sempre nota neppure a chi pure dovrebbe avere le informazioni giuste.
I diari e le cronache vergate dallo stesso Andreotti non fanno emergere un approccio opportunista al limite dell’avventurismo, così come tanti descrivono con superficialità. Tutt’altro. A leggere il flusso continuo d’incontri e scambi informativi con i vertici dell’amministrazione americana appare evidente come, per lo statista democristiano, l’alleanza con gli Stati Uniti fosse un punto di riferimento stabile e continuo e come le diverse relazioni con i nostri vicini fossero in qualche modo messe a disposizione del nostro principale partner.
Le mediazioni di Andreotti, spesso riservate e lontane dal clamore mediatico, hanno riguardato scenari diversi: dalla Siria all’Iraq, passando dal Libano alla Libia e dall’Iran all’Unione Sovietica. Certo, l’allora titolare della Farnesina faceva una grande fatica a convincere Washington dell’importanza del dialogo con Arafat e soprattutto con Gheddafi, per non citare la mancata disponibilità americana di accogliere la mediazione italiana nella crisi iraniana.
Ogni singolo momento di crisi vedeva però uno scambio diretto solidissimo con il collega al dipartimento di Stato, George Shultz.
Nel rapporto con Reagan, Andreotti non mancò mai di rimarcare l’enorme differenza fra il presidente con le carte e cartelline preparate dallo staff e il presidente senza.
Proprio per questo, forse, Andreotti ricordava come, il momento più intenso trascorso con Reagan, fosse proprio quello fuori dalla Casa Bianca, nella sua villa in California, a margine delle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984. Com’è noto, di lì a poco, sarebbe intervenuto un fatto che avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia delle relazioni fra Italia e Stati Uniti.
Nella vita politica di Giulio Andreotti, la sera del 7 ottobre 1985 e i giorni che seguirono rappresentarono un momento indimenticabile, e non positivamente. Quella sera arrivò, infatti, la notizia del dirottamento di una nave italiana, l’Achille Lauro. Furono ore intense e difficili, volte sia a capire cosa stesse effettivamente avvenendo che ad evitare un esito tragico. In effetti, con la mediazione degli egiziani e dell’OLP, si riuscì far attraccare la nave e a salvare i passeggeri con la sola esclusione di un cittadino americano ebreo che venne ucciso. I quattro dirottatori furono arrestati. “Quella notte – scrive Andreotti – pensavo di poter finalmente dormire, allietato da messaggi di congratulazioni che ci giungevano da quasi tutte le capitali, sollevate da un incubo penosissimo”. Purtroppo, la parola fine non era stata scritta, anzi. Gli americani avevano infatti intercettato il Boeing 737 dell’EgyptAir con a bordo i quattro terroristi.
Svegliato da una telefonata della Casa Bianca, Craxi (allora presidente del Consiglio) autorizzò lo scalo nella base siciliana di Sigonella, dove quindi atterrarono l’aeroplano egiziano e, con sorpresa, due C-141 contenenti le forze speciali americane delle Forze Delta. I militari statunitensi avevano l’ordine di prendere in consegna gli assassini del loro connazionale, mentre gli italiani ribattevano invocando il rispetto delle leggi e della sovranità nazionale. L’immagine che resterà alla storia è quella dei 50 Marines in tenuta da guerra che circondano l’aereo, circondati a loro volta da altrettanti carabinieri italiani. “Più tardi – appuntò Andreotti – seppi che a manovrare l’avventura erano gli stessi pasticcioni dell’Irangate. Non mi meravigliai più per l’accaduto, ma mi restò solo l’amarezza di vedere come un grande Paese possa essere coinvolto in assurdità da piccoli uomini detentori di immeritate facoltà di movimento”.
Reagan contattò Craxi mentre Shultz era in collegamento con Andreotti e Spadolini (ministro della Difesa). L’ordine di Palazzo Chigi fu di prendere in custodia i quattro dirottatori e di trattenere come testimoni i due palestinesi che erano con loro. Fra questi vi era Abu Abbas, esponente dell’OLP, indicato dalle autorità statunitensi come terrorista. Avvenne quindi il trasferimento da Sigonella all’aeroporto di Ciampino, dove intervenne la magistratura italiana. L’esito fu la convalida del fermo dei quattro, la raccolta della testimonianza dei due palestinesi che non vennero quindi ulteriormente trattenuti non essendovi le motivazioni giuridiche necessarie. Abu Abbas poté quindi lasciare l’Italia tramite un volo jugoslavo. Furono giorni di forti polemiche, alimentate anche dai media americani. Non aiutava neppure la circostanza che, poco prima che esplodesse la crisi dell’Achille Lauro, Craxi e Andreotti espressero parole di condanna per il bombardamento israeliano al quartiere generale dell’OLP a Tunisi. I ministri repubblicani si dissociarono dal governo e per ammissione dello stesso Andreotti “per la prima volta le tradizionali relazioni di amicizia fra gli Stati Uniti e l’Italia si erano incrinate”.
I successivi colloqui fra lui e il segretario di Stato erano notevoli, quasi febbrili, ed erano orientati a trovare una via d’uscita. Craxi e Andreotti minacciarono che, senza una nota chiarificatrice di Washington, non avrebbero partecipato a un importante vertice convocato da Reagan. “L’America ci doveva delle scuse e le avemmo”, scrisse Andreotti. La lettera della Casa Bianca arrivò, infatti. Era il 19 ottobre.
Cinque giorni dopo, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri erano negli Stati Uniti. L’incidente era chiuso, anche se aveva provocato una lacerazione profonda.
Una nuova linea di criticità veniva dalla differente valutazione della minaccia rappresentata dalla Libia di Gheddafi. Furono diverse le occasioni di attrito con l’amministrazione, nonostante, in più di un’occasione, lo stesso Andreotti avesse riferito al segretario di Stato e al presidente americano la disponibilità di Gheddafi ad aprire un canale serio di dialogo. L’impressione, rileggendo le testimonianze documentali del tempo, è che vi fosse una differenza non banale fra le analisi dell’amministrazione e le opinioni, ben più ragionevoli, della leadership americana. Prova ne abbiamo ancora da una lettera di Reagan nella quale sottolineava lo “specifico dovere di lavorare insieme” e affermava che “la storia e la geografia danno all’Italia una visione unica di tutta l’area”, riconoscendo che il nostro Paese aveva “affrontato con successo la sfida terroristica”. Era il dicembre 1986. La politica estera era ancora in gran subbuglio. Con alti e bassi, il processo di distensione con l’Unione Sovietica proseguiva con successo, mentre il Medio Oriente e il Golfo Persico continuavano a essere fonte di preoccupazione.
Nel frattempo, era cambiato il presidente del Consiglio, Giovanni Goria, e toccò sempre ad Andreotti accompagnarlo a Washington. Proprio nella relazione con Goria, va citato un aneddoto certamente minore ma non per questo meno rilevante, se riletto dopo poco meno di trent’anni. Nel 1988 Andreotti e Goria fecero un viaggio in Asia, dove verificarono l’efficacia dell’Asean, un’alleanza diversa dalla Nato ma dove gli Stati Uniti svolgevano comunque un ruolo indubbio di coagulo. Fu in quell’occasione che l’allora ministro degli Esteri si chiese: “L’interesse americano si sposterà decisamente dall’Atlantico al Pacifico?”. Quesito profetico che tuttavia non mutò il deciso orientamento atlantico del nostro Paese, anche con l’arrivo di un altro premier, Ciriaco De Mita.
Pure nel suo governo, Andreotti rimase alla Farnesina e proseguì in un rapporto di amicizia e collaborazione profonda con Shultz, intervenendo in più di un’occasione per offrire preziose forme di mediazione. Comunque, anche la stagione di Reagan si concluse per lasciare il testimone al suo vice, George Bush, con cui Andreotti aveva già consuetudine e che incontrò subito, anche prima della cerimonia d’insediamento.
Nel luglio del 1990, si svolge il tradizionale appuntamento del G7 e Bush decide di tenere il vertice in Texas, a Houston, dove organizza per gli autorevoli ospiti uno spettacolo tipico del luogo: un rodeo. Il presidente canadese arriva con stivali e giacca di pelle da cowboy. Mitterand indossa un foulard coloratissimo al collo e persino il tedesco Schmidt si cimenta in un insolito abbigliamento casual. L’unico, imperturbabile, ad arrivare con lo stesso abito del summit e a restare impassibile ai caroselli western è il presidente del Consiglio italiano, Giulio Andreotti. Anche in questo caso, spero sia perdonato il ricordo all’aneddoto, ma confido possa essere utile per dare l’idea della postura tenuta dal nostro statista nel rapporto con il suo principale alleato.
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Andreotti, d’altronde, non aveva nulla da dover dimostrare. Nel marzo di quello stesso anno, nel 1990, venne invitato dal presidente Bush e dalla leadership del Campidoglio a intervenire al Congresso degli Stati Uniti. Poco dopo le undici, ci dicono le cronache di quel giorno storico, il presidente italiano prende la parola accolto da un caloroso applauso di oltre un minuto. L’aula è gremita e non ci sono posti vuoti, scrive il quotidiano La Repubblica, che sottolinea come si tratti di un importante onore concesso assai raramente. Per l’occasione speciale, infatti, è presente anche Livia, la moglie del presidente Andreotti. È segnalata anche la presenza del presidente dell’Italstat, Ettore Bernabei. Parla meno di mezz’ora il premier italiano ed è interrotto da una decina di applausi. Ricorda quel lontano ’51, quando De Gasperi ricevette in quella stessa aula un’accoglienza calorosa. Quarant’anni dopo, molto è cambiato. Ora, spiega Andreotti, “la questione decisiva non è guardare ai fatti del passato bensì ai possibili ritardi rispetto al presente”. Il tema è come aiutare il cambiamento dell’Est senza restare coinvolti da possibili contraccolpi. Una drastica riduzione degli armamenti, quindi, ma anche un programma di new deal che aiuti la crescita in quei Paesi. Insomma, per Andreotti, era già in campo il tema del consolidamento di un’Europa più larga ma strettamente legata con gli Stati Uniti.
Per non dispiacere gli amanti del gossip, vale la pena di ricordare anche il grande ricevimento organizzato la sera alla Casa Bianca. Meno di un centinaio di selezionatissimi invitati: insieme ai big della business community italo-americana, i giornali segnalavano le presenze di Frank Sinatra, Lee Iacocca, Elizabeth Taylor, Puccini e il principe De Curtis, in arte Totò. Ovviamente, non mancava neppure allora l’attenzione verso l’abito della first lady italiana. Scopriamo così che la riservatissima signora Livia indossava una gonna larga di seta scura con grandi tulipani colorati.
L’emozione e la soddisfazione di questa celebrazione – che in qualche modo segnava la conclusione definitiva delle incomprensioni sorte in seguito alla vicenda dell’Achille Lauro – era destinata a lasciare presto il posto ad altre cronache. Quello stesso anno, ad agosto, l’occupazione del Kuwait riportò l’Iraq al centro dell’attenzione internazionale. Saddam Hussein, spiegherà successivamente Andreotti sulla rivista 30giorni, “non aveva messo in conto una reazione armata dell’Onu”.
“A cercare di farlo tornare sui suoi passi – ricorda l’allora presidente del Consiglio – furono in molti, noi compresi, e in particolare appassionate missioni fecero da Mosca gli inviati di Gorbaciov. Anche da Roma, tramite il cristiano Tareq Aziz, gli furono rivolti appelli reiterati”. Nel frattempo, sotto l’egida delle Nazioni Unite, si era formato un largo e poderoso schieramento militare. “A questo punto – è sempre Andreotti a spiegare – non è male notare che la nostra partecipazione non era in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione perché non si trattava di risolvere una controversia internazionale, ma di liberare un Paese occupato”.
La Guerra del Golfo fu rapidissima e lo stesso Andreotti si chiederà perché gli iracheni sconfitti non furono inseguiti occupando Baghdad e determinando la crisi del regime di Saddam, nel frattempo dipinto presso le opinioni pubbliche in America e in Occidente quale una sorta di demonio. Lo stesso Bush senior, che successivamente non fu rieletto, addebitò quello stop alle responsabilità degli alleati, francesi in testa. Dopo oltre dieci anni, e dopo il terribile attentato alle torri gemelle dell’11 settembre, una nuova Guerra del Golfo si presenterà agli occhi di Andreotti, in questo caso non più a Palazzo Chigi, ma in Senato come presidente della commissione Affari esteri. Sempre su 30giorni dirà “La regola della rapidità nel distruggere e della lentezza nel ricostruire è inesorabile. Forse, alla resa dei conti, nessuno uscirà vincitore dalla campagna del 2003”. Era l’aprile di quell’anno, il 2003. A distanza di 14 anni dobbiamo riconoscere che il senatore Andreotti aveva visto giusto.
Gli anni del suo ultimo incarico come capo del Governo furono segnati da vicende interne che venivano seguite non senza ansia e preoccupazione dalle cancellerie internazionali, Washington inclusa.
Emergeva il ruolo di partiti anti-sistema come la Lega Nord, la crisi del debito pubblico e della lira era molto forte, avanzavano inchieste giudiziarie che mettevano sotto accusa il sistema politico, sia per questioni legate alla corruzione che per la presunta vicinanza alle organizzazioni criminali del sud. In questo contesto, lo stesso Andreotti si rese protagonista di un outing assai delicato: rivelò infatti alla Camera dei deputati l’esistenza di “Gladio”, un’organizzazione aderente alla rete “Stay-Behind” costituita nel dopoguerra (nel 1956, precisamente) con un protocollo fra il SIFAR, servizio segreto italiano, e la CIA. Si trattò di una comunicazione che ebbe l’effetto di alimentare polemiche e, inevitabilmente, inchieste giudiziarie. Nel 2002, Francesco Cossiga, che era all’epoca presidente della Repubblica (nella fase di “picconamento”) così spiegò gli avvenimenti del 90: “Andreotti aveva compiuto un atto di prudenza politica: ha temuto che i comunisti o altri gli tirassero questa cosa di Gladio al momento delle elezioni a presidente della Repubblica… A differenza di Moro, che era con le mani in tutte le cose segrete, Andreotti è un pacifista cattolico. Non ha mai creduto alle forze armate né ai servizi segreti, il che spiega con quanta leggerezza abbia detto di Stay-Behind”.
Cossiga aveva certamente una buona conoscenza della materia e la sua testimonianza riporta nel contesto interno una vicenda spesso usata strumentalmente per individuare presunte ragioni di risentimento americano verso Andreotti.
Come ricordava Cossiga, in quei mesi iniziava il conto alla rovescia per il cambio al Quirinale e non era un mistero che Andreotti puntasse a concludere così la sua lunga esperienza politica iniziata al fianco di Alcide De Gasperi. Nel 1992 l’omicidio di Salvo Lima inaugurò un periodo drammatico di destabilizzazione del Paese e la strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e della sua scorta, segnò una delle pagine più buie della storia repubblicana. Seguì, immediatamente dopo, l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. L’epifania del nel frattempo divenuto senatore a vita avviene nel marzo del 1993, quando la procura di Palermo gli recapita un avviso di garanzia contenente l’accusa di associazione a delinquere e concorso esterno in associazione mafiosa. Di lì a breve, iniziò un decennio processuale che lo vide comunque protagonista di una battaglia condotta nel tribunale e non fuori.
IL DIBATTITO SU GIULIO ANDREOTTI E GLI STATI UNITI VISTO DA UMBERTO PIZZI. LE FOTO
Dopo tutto il ragionamento svolto sin qui, con la cronaca per quanto possibile dettagliata degli incontri con i vertici americani, quest’ultimo riferimento alle vicende interne sembrerà una digressione rispetto al tema assegnato, ovvero Giulio Andreotti e gli Stati Uniti. L’obiezione è fondata, lo ammetto, ma non troppo. Sarebbe infatti una facile scorciatoia non considerare questa parte della vita politica di Andreotti anche nell’ottica del rapporto con Washington. Nel nostro Paese, come sappiamo, c’è una certa tendenza a sostenere tesi complottistiche cui io invece guardo con una certa diffidenza. Tuttavia, esiste un’ampia letteratura che, prendendo spunti da dichiarazioni dello stesso Andreotti, da report della CIA declassificati e da testimonianze degli ambasciatori dell’epoca, ci consegnano l’idea di un’America tutto sommato incline a guardare, e a guardare più che favorire, il cambiamento politico in Italia.
La fine del bipolarismo mondiale, l’ascesa alla Casa Bianca di Bill Clinton, il progressivo affrancamento della sinistra italiana dall’ipoteca del comunismo sovietico, il consolidamento della costruzione europea con i trattati di Roma e di Maastricht, erano tutti elementi di contesto che inducevano l’amministrazione americana a considerare fisiologica la caduta della Prima repubblica e quindi un refresh nelle sue interlocuzioni.
Massimo Franco, che ben lo vide da vicino, descriveva Andreotti come “il guardiano della Guerra fredda e dell’Italia del purgatorio, in bilico fra il paradiso occidentale e l’inferno dei comunisti”. Era lui, proseguiva Franco, a “interpretare l’eternità democristiana e la necessità storica del Muro di Berlino”. “Nel momento in cui il partito democristiano vinceva la Guerra fredda, confermava e insieme esauriva la propria funzione storica”. Questa conclusione formulata sul piano storico vale più di ogni interpretazione maliziosa.
In ogni caso, proviamo a ripercorrere quei momenti di transizione attraverso alcune testimonianze. Peter Semler era il console americano a Milano, arrivato nel ’90. All’allora corrispondente da New York Maurizio Molinari, raccontò dei suoi incontri periodici con i comunisti e con i leghisti, convinto che la linea dell’ambasciatore a Roma, Peter Secchia –“non cambia nulla, comandano sempre Andreotti e Craxi” – fosse sbagliata. Quella sua intervista fece scalpore perché confermò quanto già si sospettava: esisteva un rapporto solido di confidenza fra Di Pietro e il consolato americano. Semler addirittura parlava di informazioni che riceveva con molte settimane di anticipo circa le inchieste e gli arresti.
Lo stesso giudice che poi prese la via dell’impegno politico fu ospite di un programma del dipartimento di Stato.
Se è vero che report della CIA, già nella metà degli anni ottanta, mettevano in guardia circa le ambiguità di Andreotti in politica interna (rapporto con i comunisti) e in politica estera (legami con Arafat e Gheddafi), va anche detto che per ragioni diverse, e a volte opposte, anche nei decenni precedenti si sono trovate relazioni poco attente a cogliere la complessità della politica italiana e in ogni caso si deve precisare come, e lo abbiamo visto, alla fine i rapporti fra Stati Uniti e Italia e fra Stati Uniti e Andreotti abbiano retto anche nei momenti – per la verità rari – di distanza.
A spiegare la complessità di letture non univoche dei medesimi fatti è lo stesso Andreotti in un colloquio con Maurizio Molinari a La Stampa. Il senatore a vita raccontava: “La CIA è una cosa, il dipartimento di Stato un’altra, la DIA un’altra ancora, e la Casa Bianca sta per proprio conto. Tangentopoli fu un fatto interno”. E se quest’affermazione appare netta e chiara, non stupirà chi ha conosciuto Andreotti leggere subito dopo il seguente aneddoto: “Una volta comprai per tre dollari alla libreria del Congresso un libricino sui piani della CIA per uccidere i capi di Stato stranieri. A volte questi piani riescono”.
Più di una volta, inclusa la citata intervista a La Stampa, Andreotti non ha mancato di far sapere il suo dubbio circa l’esistenza di possibili interferenze nella vicenda giudiziaria siciliana che lo aveva visto protagonista. Nel mirino c’era in particolare il pentito Mannoia che, fra l’altro, lo aveva accusato di essere filo arabo.
“In effetti – spiegava lo stesso senatore a vita – in quel processo da un lato ho avuto la solidarietà ufficiale degli Stati Uniti perché sono venuti a deporre a mio favore tre ex ambasciatori: Rabb, Secchia e Walters; ma dall’altra uno di questi personaggi, forse legato alla DIA, disse che avevo una segretaria con cui mi telefonavo tutti i giorni in America. Era una balla assoluta, che oltretutto poteva mettermi in difficoltà con mia moglie. Ma perché disse questo? Ancora non lo so”.
“C’è un’altra cosa che mi ha inquietato. Ho letto nei giornali che uno di questi collaboratori, Marino Mannoia, ha una villa a New York e non credo gliela lasciò la nonna”. Questa frase è stata usata più volte per asseverare l’idea di un Andreotti convinto di un coinvolgimento di pezzi dell’apparato americano. A me, personalmente, viene in mente il senatore quando nel suo studio a Palazzo Giustiniani, di fronte alle mie domande sui fatti del tempo, mi rispondeva sereno e beffardo: “È troppo presto”.
Su questo quindi, credo, sia contrario all’epistemologia andreottiana arrivare a conclusioni che potrebbero, nonostante il tempo trascorso, essere considerate affrettate.
Va detto che anche dopo la bufera giudiziaria, Andreotti ha continuato a seguire la politica estera come presidente della commissione in Senato e partecipando al dibattito pubblico, mostrando sempre attenzione e amicizia verso gli Stati Uniti anche quando aveva una posizione critica, come nel caso del secondo intervento militare alleato in Iraq. Fece molto riflettere il suo intervento in Parlamento. “Molti di noi hanno passato una vita nella costruzione di una politica di attiva solidarietà con gli Stati Uniti che ha avuto, nel Patto Atlantico, lo strumento decisivo per salvaguardare la pace in Europa e creare le premesse per un’integrazione continentale, rimossa l’ipoteca sovietica. Respingiamo quindi con forza l’idea rude di un censimento fra amici e non amici degli americani. Non si comportò così Bush senior quando, con intelligente pazienza, guidò la grande coalizione che sconfisse Saddam Hussein in Kuwait”.
Anche in occasione delle primavere arabe e della contestata decisione di avvallare la fine di Gheddafi, Andreotti prese la penna per scrivere la sua: “La reazione degli Stati Uniti a questa crisi ha suscitato qualche critica in quanto gli Usa sono lontani dal Mediterraneo: ed è vero che quando si vede un problema da lontano a volte è difficile comprenderlo in tutte le sue sfaccettature, ma sotto un altro aspetto vedere le cose da lontano ti dà la possibilità di vedere ciò che è essenziale senza perderti negli aspetti superficiali. Quindi, prima di dire che gli americani sbagliano su questo tema io ci penserei due volte”.
IL DIBATTITO SU GIULIO ANDREOTTI E GLI STATI UNITI VISTO DA UMBERTO PIZZI. LE FOTO
Gli scritti di Andreotti, le sue interviste, le carte preziose custodite qui all’Istituto Sturzo ci riconducono alla grandezza di un’esperienza che ha segnato decenni di protagonismo nella vita pubblica italiana e nel rapporto centrale con gli Stati Uniti. In occasione della sua morte, l’ambasciatore Mel Sembler ha detto: “È un uomo che ha vissuto una lunghissima carriera politica guidando l’Italia del dopoguerra attraverso decenni di cambiamenti e di trasformazione nell’Occidente. Uno statista e un visionario di cui la storia si ricorderà”.
Qualche tempo prima, è stato Henry Kissinger a scrivere di Andreotti, introducendo la versione inglese del suo “Gli Usa visti da vicino” (“Usa, Up to close”).
La sua testimonianza è tanto più preziosa in quanto si considera l’ex segretario di Stato americano fra i più fieri diffidenti dello statista italiano. Kissinger in realtà di Andreotti ha detto:
“No Italian leader has made a greater contribution to the postwar history of his country than Giulio Andreotti. Every secretary of State since Dean Acheson and every president since Truman has had to deal with this extraordinary statesman. Giulio Andreotti has achieved this dominance because he possesses one of the sharpest and subtlest minds of his generation. His understated behavior reflects his convinction that a policy based on brilliant analysis needs no fanfares. Americans have reason to be grateful that in Andreotti high intelligence is clearly related to committment to Western values and friendship with the United States”.
Per concludere, vorrei usare le parole dello stesso presidente Andreotti per tentare una sintesi di quello che è stato il suo più forte legame internazionale senza però mai dimenticare, per un solo istante, l’interesse nazionale del proprio Paese. “L’amicizia con gli Stati Uniti deve essere vissuta in posizione di riposo e non di attenti”.
In questa celebre ed efficace battuta di Andreotti è forse contenuta la più alta lezione di rispetto per sé e per il proprio, amato, interlocutore.
Grazie