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Giorgia Meloni e la frontiera della destra chiusa

Il presente momento politico è caratterizzato da forti inquietudini. Mentre il PD vive ormai in modo avanzato gli effetti della sindrome Matteo Renzi, con tanto di ipotesi scissione pubblicamente espressa da Massimo D’Alema, ecco che il tradizionale centrodestra comincia seriamente a ragionare sui motivi della propria identità e sulle condizioni di possibilità di eventuali alleanze.

In tal senso la convention romana di ieri, “Italia sovrana”, ha messo in primo piano la figura di Giorgia Meloni in qualità di leader di quella destra che Fratelli d’Italia insieme alla Lega Nord di Matteo Salvini vogliono rappresentare, interpretare, raccontare nel nostro Paese.

I temi chiariti ieri hanno un primo merito oggettivo: la declinazione nazionale delle tendenze più classiche dei contenuti politici della cosiddetta destra internazionale, un movimento di idee e di progetti di governo, in questa fase storica, rappresentato negli States e in Russia da Donald Trump e da Vladimir Putin.

Tutto ciò attribuisce un conseguente parametro di trasparenza al contesto variopinto e articolato della politica italiana. Se infatti nel PD la sinistra interna non ha un Sanders da contrapporre a Renzi, il quale appare appannato peraltro nel suo progetto da sortite pubbliche che appaiono poco trascinanti; ecco che, dall’altra parte, la Meloni ha facilità a raccogliere inclinazioni che si muovono in modo antagonista nel quadro però delle grandi potenze mondiali, raccogliendo istanze emotive, talvolta perfino convinzioni profonde, molto sentite dalla gente comune.

Il suo discorso politico dal palco si è raccolto prevalentemente su tre tematiche principali: il ritorno ad una democrazia intensiva, sorretta dal sano principio che il popolo è una sostanza comunitaria che può e deve tornare ad identificarsi con lo Stato; la centralità della difesa degli interessi italiani contro lobby e poteri esterni; la ripresa di un ethos “antico”, proprio perciò sempre moderno, ruotante attorno alla realtà permanente della persona umana e della famiglia naturale.

Visto da quest’ultimo punto di vista, la posizione espressa dalla Meloni con enfasi contro le teorie di genere, e soprattutto contro la relativizzazione dei diritti che un uomo e una donna hanno di essere concretamente tutelati e sostenuti socialmente nel loro progetto di famiglia, è totalmente condivisibile, rappresentando un’indiscussa operazione chiarezza in un centrodestra che in passato non è stato mai così netto, preciso e concreto in materia.

La destra riparte dunque da un suo mood centrale: il primato della natura umana come fondamento della società. Una natura umana che è universale, ma che si offre storicamente suddivisa in comunità storiche precise e delimitate, di cui la nostra incarna in modo particolare la grande tradizione romana e cristiana. Si può citare Ulpiano che diceva appunto che “il diritto è anzitutto natura”, e la natura umana è fatta di uomini e donne concreti, e non di una astratta umanità inesistente.

La linea politica della destra perciò assume grafie identitarie, senza più imbranati riferimenti eclettici, e si offre come riferimento netto e razionale di alternativa al progressismo globalista.

È importante, ciò nondimeno, che questi ideali trovino adesso una loro forza culturale, e non si esauriscano in spot poco consapevoli, ed è fondamentale che un polo sovranista non assuma velleità nazionaliste, le quali, come ha spiegato Roger Scruton, finiscono per essere opposte agli interessi nazionali di un sano patriottismo.

Detto tutto ciò, due problemi si palesano all’orizzonte. Il primo riguarda la vocazione anti maggioritaria di questo progetto di “destra chiusa”, consapevole che un bacino elettorale è pronto comunque fin dall’inizio a dare conferma elettorale, ma che esso non potrà mai, in questa forma, superare nel proporzionale il 20%.

Il secondo è la sfida messa in atto dalla destra nazionale di diventare una forza realmente conservatrice e non radicalmente nemica del sistema, una virtù che implica, per l’appunto, saper intercettare ugualmente un consenso moderato generalmente refrattario a tale ispirazione.

Qui si apre il tema, da un lato, dei modi in cui sia possibile unire il centrodestra e, dall’altro, di chi potrebbe fare il leader di tale coalizione allargata. Anche perché le primarie sono impossibili senza la volontà, che non c’è, di Silvio Berlusconi di farle, e perché, d’altro canto, non sembra probabile che Meloni e Salvini accettino di essere comprimari, se non sono i militanti a decretarlo con le primarie, che potrebbero perfino vincere.

In Forza Italia, da par suo, vi è chi segue Berlusconi nella logica dei due forni, magari attendendo di capire Renzi che farà, e chi teme di finire come il NCD, condannato ad essere un inutile succursale essiccata del centrosinistra.

In conclusione è doveroso notare che nel centrodestra la parte propulsiva è diventata la destra, anche per un’opposta e indiscutibile crisi di leadership dell’area moderata, ma, al contempo, che questa situazione rischia di far crescere Beppe Grillo malgrado i segnali sconfortanti che vengono da Roma.

Ecco, perciò, che si comincia ad intravvedere il perché la destra opta oggi per se stessa, sapendo che potrebbe diventare domani ago della bilancia in caso di un’eventuale vittoria elettorale del M5S, se quest’ultimo non riuscisse ad avere i numeri parlamentari per fare da solo.

Si vedrà naturalmente, sebbene, in fin dei conti, oggi il fatto positivo è che la destra si presenti come un presupposto di chiarezza nella politica italiana, utile specialmente affinché le altre forze politiche tornino a giocare con limpidezza il proprio ruolo nella propria parte, senza infingimenti tattici, sicuramente condannati, dati i tempi che corrono, ad un totale fallimento elettorale.

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