Ieri l’assemblea del Pd ha avviato le operazioni per il congresso dopo le dimissioni del segretario Matteo Renzi. Il congresso, in base allo statuto del Pd, si deve svolgere entro 4 mesi dalle dimissioni del segretario.
La minoranza del partito, per bocca di Michele Emiliano, ha chiesto in sostanza più tempo prima dello svolgimento del congresso. Obiettivo? Dare maggiori possibilità ai candidati alternativi a Renzi di discutere con la base del partito e girare l’Italia per illustrare i rispettivi programmi.
Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza si attendevano un riscontro positivo alle richieste illustrate in assemblea dal governatore della Puglia; riscontro che non c’è stato. Così, dicono i tre esponenti della minoranza, è Renzi che con queste chiusure ci induce alla scissione.
Dunque la scissione si farà – se si farà – solo per qualche settimana in più o in meno rispetto al congresso? In verità, dietro queste diatribe metodologiche e di tempistica, si cela un dissidio profondo – ideale e programmatico – tra la maggioranza renziana e la minoranza del partito. E dietro il trio che si è esposto negli ultimi giorni si scorgono le tattiche di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema.
Sentendo ieri l’intervento di Guglielmo Epifani all’assemblea del Pd, e leggendo le 7 tostissime pagine del centro studi Nens fondato da Pierluigi Bersani e Vincenzo Visco con critiche serrate al governo Renzi, i dissidi sono forse troppo radicati e i rapporti personali troppo incarogniti per poter essere dissimulati o ricondotti a una fisiologica dialettica fra maggioranza e minoranza. Il dado è tratto.