Ormai si parla senza più alcun ritegno o pudore dell’uscita dall’euro. Dell’Italia, della Germania, della Grecia, della Francia, dell’Olanda. Ognuno ha le sue ricette per uscire dalla crisi che attanaglia da ormai un decennio alcuni paesi del Vecchio Continente. La maggior parte di quelle che girano sui social media hanno però un tratto comune: è necessario cessare l’esperienza dell’euro. O, al massimo, è inevitabile: quindi meglio prepararsi per tempo.
Abbiamo già ampiamente scritto su questo argomento (Link1; Link2), ma visto che non solo pseudo-economisti (si veda il giornalista Enrico Grazzini, ospitato addirittura da Micromega, rivista che si proclama “da 30 anni insieme per una sinistra illuminista” Link3) ma anche autorevoli studiosi (Giorgio La Malfa, Paolo Savona) e prestigiosi centri studi (OFCE, Observatoire français des conjonctures économiques e Mediobanca) si sono ultimamente dedicati agli scenari di ItalExit, è forse opportuno ritornare sulla questione dell’uscita dell’Italia dall’euro.
Interessante in particolare il recentissimo paper dell’OFCE, fondato nel 1981 da Raymond Barre (allievo di Perroux e uomo-chiave nella politica economica e monetaria nell’era De Gaulle), e presieduto per un ventennio da Jean-Paul Fitoussi. La tesi fondamentale dello studio è cha la rottura dell’euro non sarebbe affatto una sciagura, per l’Italia. Soprattutto, non porterebbe con sé svalutazioni clamorose. Ma come? Finora i Bagnai, i Rinaldi e i Borghi di turno ci hanno invaso le bacheche di facebook con le virtù della svalutazione, conseguente all’uscita dell’Italia dall’euro, per rilanciare le esportazioni e favorire la ripresa con la più tipica delle ricette della cucina mediterranea… e adesso invece si scopre che non vi sarebbe svalutazione?
Lo studio francese è, dal punto di vista della teoria economica, assolutamente impeccabile… e allo stesso tempo demenziale: l’idea che vi sta alla base è che il tasso di cambio tenda a riflettere il saldo della partite correnti; e siccome l’Italia ha un conto corrente in attivo (le esportazioni superano le importazioni), invece che svalutarsi il cambio della futura moneta si dovrebbe addirittura rivalutare rispetto all’area dell’euro! Et voilà!
Come abbiamo già più volte scritto, l’economia è una disciplina affascinante, proprio perché non è una scienza esatta. È per questo che nessuno può impiccare sulla pubblica piazza chi osa proferire (e rendere pubbliche, il che è un po’ più inquietante) analisi di questo tipo. Che ovviamente hanno un fondamento, nei libri di testo (nella realtà no, ma questo è irrilevante). È quello che i docenti di economia internazionale raccontano ai propri studenti del primo anno. E, come quasi tutte le cose che raccontiamo agli studenti in un corso del primo anno, si tratta appunto di finzioni della letteratura didattica.
L’economia è una scienza sociale, e fare previsioni è attendibile esattamente quanto scommettere che alla roulette esca un numero piuttosto che un altro. Quindi ben vengano opinioni diverse, anche contrapposte. Niente è falsificabile in termini popperiani, quindi niente è scientifico. E quindi tutto diventa esercizio retorico. Ok, mi sta bene.
Ma dire che il tasso di cambio riflette necessariamente l’andamento del saldo della bilancia commerciale è un tantino troppo, anche per la mia sensibilità estremamente tollerante e pluralista. In realtà dovrebbe essere il tasso di cambio (reale) che si riflette sul saldo delle partite correnti, influenzando la competitività del paese; ma se a=b, anche b=a, giusto? Allora perché preoccuparsi troppo del senso che hanno le nostre affermazioni, giochiamo pure con i concetti economici come se fossero semplici relazioni matematiche, che si possono invertire a piacimento!
Semmai, a voler cercare di venire incontro all’affermazione dell’OFCE, il tasso di cambio tende a riflettere l’andamento della bilancia dei pagamenti (il che è ben diverso), dove quello che conta di più sono afflussi e deflussi di capitali, e le scelte di portafoglio degli investitori; ma su questi aggregati incombe l’influenza (imprevedibile) delle aspettative.
Ora, mi chiedo: quali aspettative prevarrebbero sui mercati internazionali (perché ricordo che i mercati sono globali, e per quanto ci si possa sforzare, nemmeno i paesi più rigidi riescono ad evitare manovre elusive delle influenze dei mercati finanziari mondiali) con l’uscita dell’Italia dall’euro? I risparmi ed i capitali dei residenti in Italia secondo voi rimarrebbero nel paese, in beata attesa di rischiare che perdano improvvisamente valore? Il sistema bancario e finanziario come farebbe fronte ad una corsa agli sportelli (estremamente probabile)? Facendosi rifinanziare dalla Banca d’Italia con carta straccia? E quante istituzioni internazionali sarebbero pronte a scommettere sull’Italia per farvi invece affluire investimenti produttivi, per finanziare la spesa pubblica, per sostenere il sistema bancario nazionale? Come pagheremmo i saldi del Target 2, che come ha ricordato Draghi sono debiti che vanno estinti (in euro) per poter uscire dalle obbligazioni comuni; e uno dei debiti pubblici più grandi al mondo, pari ad oltre 2.300 miliardi di euro?
E qui entra in gioco Grazzini, che ci informa della possibilità di ridenominare il debito pubblico nella nuova moneta, attenuando quindi il suo costo con la svalutazione (ma non abbiamo detto che non c’è svalutazione e proprio per questo non subiamo costi?) e che i saldi del Target 2 non sono un vero e proprio debito (ma anche l’istituto francese conferma che lo sono eccome, anche se non contabilizzato in maniera standard).
E se invece si dovesse abbattere sul paese quello che tutti si aspettano (ed auspicano), ossia la svalutazione, quanto vi aspettate che sarebbe la perdita del potere d’acquisto, quindi in termini reali, delle retribuzioni fisse, non più agganciate all’inflazione? Una bottiglia di Champagne verrebbe a costare il 40% in più; vabbè, si può vivere senza Champagne. Ma anche uno smartphone verrebbe a costare il 40% in più… e provate a vivere senza uno smartphone di ultima generazione (ma anche di generazioni precedenti)… Senza parlare, ovviamente, di altri prodotti d’importazione forse non essenziali alla sussistenza fisica, ma ormai entrati a pieno titolo nella sussistenza sociale, relazionale. Provate a comprarvi un I-Phone o il nuovissimo Samsung S8 Edge (a seconda dell’ideologia telefonica alla quale appartenete) all’equivalente (nella nuova moneta svalutata) di 1.000 euro, con i salari che vengono erogati nella nuova moneta. Senza contare che la nostra è un’economia di trasformazione, che richiede componenti importate per produrre praticamente qualsiasi cosa esportiamo. Fate ancora un salto da Ikea, e guardate se riuscite ad acquistare ancora qualcosa. Insomma, fatevi due conti.
Ora, visto che ognuno si prende la libertà di dire quello che gli passa per la testa, voglio dire anch’io la mia, magari esagerando un po’ (ma non troppo): credo che l’uscita dell’Italia dall’euro sia una iattura, che il costo sociale ed economico sarebbe altissimo, che la qualità della democrazia nel paese, già pesantemente incrinata e forse irrimediabilmente compromessa, degenererebbe fino a sfociare definitivamente in forme dittatoriali. Insomma, ci condurrebbe verso un baratro di cui non riusciamo nemmeno ad immaginare il fondo. E credo che ogni parola scritta a favore dell’uscita dell’Italia dall’euro ci avvicini verso il margine di quel baratro, e renda sempre più costoso rimanere sul bordo e non buttarci di sotto. Fino a quando, a forza di alzare il costo di rimanere sull’orlo del precipizio, saremo così disperati da essere costretti a buttarci… e ad a subire le conseguenze che ci si possono facilmente aspettare da un salto di qualche centinaio di metri…
Più seriamente, l’impossibilità di governare le aspettative dei mercati finanziari e dei singoli operatori rispetto ad un evento così drammatico come l’uscita dall’euro suggeriscono che, prima di pensare a qualche improbabile Piano B, faremmo meglio ad impegnarci con tutti gli strumenti a nostra disposizione (cosa che nessuno ha mai ancora fatto seriamente) per trasformare in fretta questa eurozona in una genuina democrazia sovranazionale, con un Tesoro federale dotato della legittimità e della capacità giuridica per fare una politica economica espansiva a livello europeo, utilizzando la forza dell’euro per rastrellare fondi sul mercato dei capitali ed investirli in progetti credibili di crescita e in investimenti collettivi per il rilancio dello stato sociale e di strategie di politica industriale.
Utopia? Forse, ma preferisco questa utopia, rispetto all’illusione di poter tornare a crescere semplicemente riconquistando la sovranità monetaria nazionale.