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Un fiammifero nella polveriera siriana

Tutto il mondo è stato colto di sorpresa dall’attacco americano sulla base siriana di Al-Shayrat. Mentre i risultati militari sono controversi, i rischi di esplosione della polveriera siriana non sono diminuiti.

Trump ha più volte condannato Obama per aver pianificato un blitz contro al-Assad in seguito agli attacchi chimici siriani del 2013 richiedendo che un atto di guerra di questa portata fosse prima avallato dal Congresso. In campagna elettorale, il futuro presidente ha più volte garantito che avrebbe lavorato con il presidente siriano e con Putin per combattere il terrorismo. Ha dichiarato che il vero problema non era Bashar al-Assad ma lo Stato islamico.

Abbiamo letto ed ascoltato innumerevoli analisti spiegare che Trump era un realista – addirittura un isolazionista – e che non era interessato a interventi militari in aree così lontane dal territorio e dagli interessi americani. Ad Ankara il 30 marzo, il Segretario di Stato Rex Tillerson ha affermato che il futuro di al-Assad “sarà deciso solo dal popolo siriano”. Lo stesso giorno a New York, l’ambasciatore presso l’Onu Nikki Haley ha confermato che “il nostro obiettivo non è più concentrato sul come cacciare Assad”.

Nonostante questo, Trump non ha esitato a ordinare il lancio di 59 missili Tomahawk contro la base militare di Al-Shayrat, vicino a Homs, come rappresaglia per l’attacco siriano a Khan Sheikhoun.

Anche se l’attacco di pochi giorni prima è stato certamente orribile, il precedente episodio di guerra chimica del 2013 aveva spinto proprio Trump a pretendere che fosse garantito l’appoggio del Congresso prima di una ritorsione militare guidata da Obama. Comunque, ormai da diversi anni, Assad continua a massacrare civili in massa con proiettili e bombe convenzionali.

La politica americana è quindi improvvisamente cambiata: mentre la Cia ha iniziato a spedire armi alle forze di opposizione già nel 2013, l’aeronautica Usa ha iniziato i bombardamenti in territorio siriano contro Isis dal 2014 e le forze speciali americane hanno messo piede sul territorio siriano (sempre in chiave antiterroristica) fin dal 2015, questa è la prima volta che gli Stati Uniti attaccano direttamente le forze governative siriane.

Per tutta la durata di questo conflitto, gli americani sono stati attentissimi a non rischiare di complicare la situazione colpendo inavvertitamente militari o mezzi appartenenti al principale alleato di Assad: la Russia.

Per scongiurare i rischi di un confronto militare diretto Usa-Russia, le due nazioni hanno stabilito un memorandum comune che prevede “il mantenimento del massimo livello professionale del personale coinvolto, l’uso di specifiche e riservate frequenze di comunicazione e una comunicazione dedicata terrestre” al fine di scongiurare incidenti. Inoltre, i piloti di entrambi gli schieramenti devono operare a distanza di sicurezza gli uni dagli altri e in generale stare lontano da un quadrante finché lo spazio aereo non risulta libero da mezzi battenti l’altra bandiera. Altri protocolli di comunicazione hanno lo scopo di evitare che forze di terra di uno dei due vengano inavvertitamente coinvolte in azioni militari dell’altro.

Per tutta la durata dell’amministrazione Obama – nonostante il rinascere della guerra fredda sul territorio europeo – Washington e Mosca si sono reciprocamente tenute informate sulla posizione delle rispettive forze nello scacchiere siriano proprio per evitare guai. La stessa logica ha vietato alla Cia di fornire armi pesanti ai ribelli per non indurli nella tentazione di attaccare aerei o artiglierie russe.

Secondo questo accordo, i russi avevano avvisato già nei primi mesi del 2016 che il loro personale e i loro mezzi si erano ritirati dalla base di Al-Shayrat e sempre per questo motivo Washington ha avvertito Mosca pochi minuti prima dell’attacco della scorsa settimana. Per inciso, è curioso che alcuni testimoni abbiano affermato che i siriani hanno provveduto a evacuare la base da truppe ed equipaggiamenti mobili alcune ore prima dell’attacco.

Probabilmente, è ancora secondo questa logica che Trump e i portavoce del Pentagono si sono affrettati a far capire che il bersaglio era ben delimitato nel tempo e nello spazio e hanno giustificato esplicitamente il bombardamento come un atto di rappresaglia identificando quell’aeroporto come la base di partenza per l’attacco – quasi certamente con armi chimiche – a Khan Sheikhoun. Tillerson ha subito cercato di contenere la possibile escalation sottolineando che la politica e la posizione americana sul conflitto siriano rimane immutata.

Ma alcuni sviluppi mettono i brividi. Prima di tutto, Putin non ha risposto direttamente al suo omologo ma ha affidato al suo portavoce Dimitry Peskov una dichiarazione di condanna dell’attacco al proprio alleato come violazione del diritto internazionale. Poi, la Russia ricorda che gli ispettori Onu hanno evidenziato che la Siria non possiede armi chimiche; continua a sostenere che i bombardieri siriani non hanno effettuato un attacco chimico ma hanno bombardato un deposito di prodotti tossici in mano ai terroristi e continua a richiedere una commissione di inchiesta internazionale sul tragico evento. Il viceambasciatore Vladimir Safronkov ha sottolineato che, mentre gli americani parlando di combattere il terrorismo internazionale, hanno attaccato proprio la forza militare che sta guidando questa guerra.

Inoltre, Mosca ha sospeso il memorandum comune sulle operazioni aeree e al contempo il ministro della difesa russo – anche stavolta tramite il suo portavoce, Igor Konashenkov – ha dichiarato che Mosca metterà in atto una serie di misure per potenziare il sistema di difesa aerea siriano.

C’è il tentativo di alcuni falchi di Washington di interpretare questo attacco come il primo passo verso un’espansione del ruolo americano nella guerra civile siriana. I senatori John McCain e Lindsey Graham hanno salutato apertamente l’azione come il primo passo verso la totale distruzione della aviazione siriana e l’aumento del supporto militare all’opposizione.

Con tutta probabilità una escalation militare americana non può che provocare una parallela escalation russa a protezione del proprio alleato. La malafede dei falchi è evidente perché fingono di ignorare che solo un anno e mezzo fa – nel settembre 2015 – quando il regime siriano sembrava alle corde e i ribelli armati dalla Cia ormai pronti a rovesciarlo, la Russia è intervenuta in forze iniziando una serie di bombardamenti contro gli estremisti islamici che ha ribaltato le sorti del conflitto e posto fine all’espansionismo dello Stato islamico.

Anche se questo attacco americano è stato estremamente contenuto – solo 36 ore dopo l’aeroporto di Al-Shayrat aveva ripreso le operazioni di decollo e atterraggio – c’è da notare il repentino cambio di strategia del comandante in capo delle forze armate americane.


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