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Perché critico le tesi dei 5 Stelle sul lavoro escogitate da Giorgio Cremaschi

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Il secondo quesito lavoristico proposto dal Movimento 5 Stelle assume quale presupposto che l’impresa debba essere necessariamente un luogo di democrazia universale. Se è ben vero che una fondamentale convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro impegna ogni Paese a garantire la libera organizzazione sindacale e la libera contrattazione collettiva, ciò non significa obbligare ogni comunità di lavoro a dotarsi di rappresentanze unitarie fondate sul voto universale.

Proprio il principio di libertà ammette che molte aziende non siano “unionizzate” e quello del pluralismo sindacale consente a ciascuna associazione di regolarsi con modalità proprie e quindi non necessariamente condivise con le altre.

Il vincolo della firma del contratto per l’agibilità sindacale fu la conseguenza sciocca di un referendum voluto proprio dall’organizzazione di Cremaschi cui la Consulta ha posto rimedio. D’altronde, nella contrattazione le parti sono libere di individuare soluzioni condivise o di dissentire. La regola essenziale riguarda l’auspicabile convergenza degli interessi sostenuta dai “rapporti di forza” verificabili in ogni circostanza.

Lo Stato insomma si limiti a poche, leggere, norme di sostegno e non pretenda di attrarre nella dimensione pubblicistica anche le libere associazioni di tutela e rappresentanza. Troppe situazioni in Italia sono instabili per il contenzioso temerario che generano e i lunghi tempi di attesa di giudizi spesso imponderabili. Evitiamo di condurre in questo ambito anche gli accordi sindacali minando quel po’ di concordia che ancora si genera nella nazione.

Maurizio Sacconi


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