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The Islamic State of Stoccolma. Ecco la Svezia che nessuno racconta

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Alessio Lasta è l’autore di un reportage andato in onda su La7 nell’ultima puntata di Piazza Pulita di Corrado Formigli. A pochi giorni dall’attentato che ha colpito Stoccolma, il servizio ha svelato tutte le falle dell’integrazione sociale svedese e in particolare il dramma del “ghetto” di Rinkeby, il quartiere musulmano dove l’Europa dei diritti e delle libertà sembra lontana, anzi lontanissima. Ecco la conversazione di Formiche.net con Lasta.

Abbiamo visto in tv le immagini del “Lovefest”, la festa dell’amore, organizzato dopo l’attentato a Stoccolma con una notevole partecipazione. Tu eri lì pochi giorni fa. Che aria si respirava?

L’impressione che ho avuto è che in questo momento la Svezia sia come un pugile che ha ricevuto il pugno del k.o. Al “Lovefest” c’è stata una partecipazione di massa, molto diversa rispetto a quella che abbiamo visto in Europa. Sul palco, ad esempio, sono saliti solo due politici. La filosofia dietro l’evento era far parlare la società civile e mettere la politica nell’angolo insieme alle polemiche che ne potevano derivare. Una cerimonia snella, poco retorica e con una partecipazione commossa. Mi ha impressionato però quando li ho intervistati per strada. Non solo loro, ma nemmeno la stampa usa la parola “terrorismo”, che è stata bandita dai media: è significativo che il nome dell’attentatore uzbeko sia stato reso noto solo a due giorni dalla sua cattura.

La Svezia è un paese dove le forze estremiste di destra sono tutt’altro che irrilevanti. È possibile che non ci sia nessun rancore, nessuna reazione di rabbia verso quello che è successo?

In effetti c’è stato un allarme della polizia e dei servizi segreti, alcuni focolai dell’estrema destra si stanno iniziando a muovere. C’è il partito conservatore Sverige, che dal 2010 al 2014 ha più che raddoppiato i seggi, in Europa nel 2014 ha eletto due deputati, e il prossimo anno andrà incontro a un successo assicurato. Il loro tema forte è il rifiuto dell’immigrazione incontrollata e la sicurezza. Io ho cercato di intervistarli ma sono molto restii, in questo preciso momento storico neanche loro hanno voluto sfruttare l’onda, se fosse successo in Italia ci sarebbero state decine di conferenze stampa. C’è un altro gruppo extraparlamentare che sta crescendo, “The Soldiers of Odin” (SOO): vanno di notte in giro a fare le ronde contro gli immigrati. L’altr’anno fecero scalpore perché si misero nel centro di Stoccolma a offrire caffè agli svedesi rifiutandolo agli immigrati e alle persone di colore. Tutti questi gruppi stanno crescendo sempre di più alle urne, in particolare la Sverige. Forse alle prossime elezioni non riusciranno a governare perché c’è un sistema proporzionale e tutti gli altri partiti si alleeranno contro.

Il tuo servizio per Piazza Pulita inizia con il video di un predicatore islamico che sostiene che le donne non devono andare in giro senza velo né essere libere di fare ciò che vogliono.

Nei primi giorni di aprile il giornale Aftonbladet ha mandato in onda il video del predicatore islamico Mohammad Zamzam mentre teneva una conferenza a Göteborg. Quell’uomo è il capo dell’Unione dei Musulmani Svedesi, una delle tante associazioni che ricevono finanziamenti direttamente dallo Stato. A Malmö, Göteborg, e in tutto il Sud della Svezia abbondano predicatori radicali come lui. Gli svedesi hanno scoperto solo adesso di aver lasciato crescere in casa queste persone.

Perché il modello di integrazione svedese non sta funzionando?

Perché il loro modello di accoglienza si basa su una filosofia sbagliata: integrazione sì, enormi finanziamenti pure, ma gli immigrati devono restare lontani dalle loro città. Questa politica del governo andrebbe ripensata: non c’è una casa di immigrati che sia costruita in un centro urbano, questa non è integrazione. Solo alcuni di loro lavorano in città, ma sono una minoranza. Gli altri frequentano le scuole coraniche, che sono sovvenzionate dallo Stato e loro chiamano “free schools”, un po’ come le nostre paritarie.

Recentemente abbiamo visto il dramma sociale del ghetto nelle banlieues francesi. Abbandonare e isolare questi quartieri nega qualsiasi possibilità di integrarsi.

C’è una differenza però. Mentre la Francia è stata una potenza coloniale, e in qualche modo c’è un richiamo comune alla madrepatria, in Svezia questo manca. La storica apertura del paese all’immigrazione è sempre stata politica più che culturale. Negli anni ’70 la Svezia ha lanciato il “Million Programme”: un milione di case da costruire nelle zone periferiche, come Rinkeby, il distretto musulmano di Stoccolma. Gli alveari che hanno costruito però sono molto diversi dalle nostre periferie. A Rinkeby, una specie di Bronx a Stoccolma, ci sono i campetti da calcio in erba sintetica per i bambini. C’è un grosso investimento economico del governo sul welfare e queste case popolari sono piene di servizi e per nulla fatiscenti.

Nel tuo reportage quel quartiere sembra la Kabul dei tempi peggiori. Una delle donne che hai intervistato parla di una “polizia morale” che gira in quelle strade, roba da far venir la pelle d’oca. Ci racconti cosa hai visto a Rinkeby?

Per quanto riguarda il quartiere i dati li ho detti nel servizio: 35.000 persone, il 98% delle quali musulmane, 923 segnalazioni alla polizia negli ultimi anni. La “polizia morale” è composta di uomini in abiti tradizionali, estremisti islamici. Lì al centro del quartiere c’è una piazza con un bar frequentato da soli uomini, le donne non possono sedersi né avvicinarsi. Nel raro caso in cui qualcuna ci provi, arriva questa “polizia morale” e la riempie di insulti, le dà della prostituta, le dice di andarsene. Quel che mi preme sottolineare è la situazione in cui vivono le donne in queste periferie. C’è un’attivista che ho intervistato, si chiama Mona Walter, una somala arrivata anni fa come profuga a Göteborg nel Sud della Svezia. Per un po’ di tempo ha vissuto nella comunità islamica finché non ha deciso di togliersi il velo, ora è cattolica. Mi ha raccontato che ogni volta che ha provato a parlare al governo svedese cercando di spiegare la situazione in questi sobborghi è stata accusata di essere islamofoba e contraria all’integrazione. Questo dà una misura di come per gli svedesi fino ad oggi parlare di islam radicale fosse un tabù. L’unica donna con cui sono riuscito a parlare a Rinkeby è una ragazzina somala, che mi raccontava di aver messo il velo “per scelta” a cinque anni.

Però anche i cristiani battezzano e fanno fare la comunione ai figli quando da parte loro non può esserci ancora piena coscienza. Non è la stessa cosa?

C’è una grossa differenza: il battesimo non è un segno di esclusione sociale, il velo in testa a Rinkeby invece diventa un segno di segregazione. In quel posto se una donna si toglie il velo viene emarginata dalla società. In tre giorni che sono stato lì non ho visto una sola donna senza il velo: si avverte in modo molto forte questo “Stato” nello Stato, una legge parallela di cui la polizia vera non si occupa, perché i poliziotti hanno paura di entrare in quartieri come Rinkeby.

Nel servizio si vede che molti hanno cercato di impedirti di lavorare, qualcuno di aggredirvi. Chi sei riuscito ad avvicinare?

Moltissimi non volevano parlare per paura. Io ho chiesto interviste anche a intellettuali, analisti e scrittori che avevano scritto libri sul tema dell’emarginazione, ma ho sempre ricevuto dei no. Questo tema è un tabù in Svezia, anche per gli intellettuali. Per anni hanno incentivato questo modello di integrazione sui giornali e sulle tv. Sia chiaro: il modello in sé è positivo: concedere agli immigrati luoghi di culto, scuole, case. Il problema nasce quando si pensa che concedendo i diritti che per noi sono fondamentali loro diventino come noi. Invece che questa politica di concessione sarebbe più utile una politica di vero scambio culturale, che tenti di unire il centro con le periferie, ormai diventate veri e propri ghetti.

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