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Vi spiego perché per Macron c’è il rischio coabitazione dopo le legislative

E’ finita come doveva finire. Ma soltanto per ora. Emmanuel Macron, al di là di ogni ragionevole dubbio, il 7 maggio sarà eletto presidente della Repubblica. Ma la partita continuerà. E sarà più dura di quanto possano immaginare coloro che si complimentano per lo “scampato pericolo” rappresentato da Marine Le Pen. Terminerà, almeno a livello politico, soltanto a giugno con le elezioni legislative, quando i francesi saranno richiamati alle urne per rinnovare l’Assemblea nazionale. E’ lì che il neo-presidente dovrà cercarsi una maggioranza senza la quale non potrà governare: eccolo il limite del semi-presidenzialismo e la sostanziale iniquità del cosiddetto “doppio turno”. Dal momento che Macron un partito strutturato sul territorio non ce l’ha è prevedibile che dovrà rivolgersi ai suoi attuali ed improvvisati sponsor – a proposito, che figura di “statista” François Fillon: è stato il primo a dichiarare che voterà per il giovane leader di En Marche!, dimenticando che soltanto pochi giorni fa lo aveva pubblicamente definito un “impostore” – per varare un governo di coalizione che può significare anche “coabitazione”. Macron potrebbe essere “costretto”, infatti, a nominare un premier che non ha niente a che spartire con lui, un uomo indicato dai Républicains o addirittura dagli scomparsi socialisti o da chiunque altro riesca a mettere insieme una maggioranza variopinta ed eterogenea in Parlamento.

La stabilità, dunque, è la prima sconfitta di queste elezioni presidenziali. Ma non è neppure escluso che lo sia anche la rappresentanza politica. Immaginate il partito della Le Pen, forte dopo il ballottaggio di una percentuale che si aggira intorno al trentacinque per cento, in virtù della bislacca legge elettorale francese potrebbe essere assente all’Assemblea nazionale o molto sottodimensionato rispetto ai voti reali per via sempre di quel “doppio turno” che lo esclude in nome dell’unità repubblicana.

Ma su questo avremo modo di discutere in futuro. Interesserà probabilmente poco tecnocrati, globalisti e finanzieri, ma la gente una qualche sensibilità al riguardo la dimostrerà. Quella stessa gente che votando contro i partiti tradizionali (per la prima volta gli eredi del generale De Gaulle non sono presenti al ballottaggio, mentre quelli di Mitterrand si sono liquefatti) ha sì scelto Macron come estrema speranza di sopravvivenza in un’Europa avvertita sempre più come estranea, ma ha dato anche un segnale fortissimo di cambiamento che non potrà non riverberarsi sulle legislative tra meno di due mesi.

Il segnale è inequivocabile: i voti della Le Pen e quelli di Mélenchon – sovrapponibili (per quanto paradossale) dal momento che sono motivati dalla stessa critica al globalismo e al potere tecnocratico – ammontano al quaranta per cento. Si può non tenere conto di una tendenza così marcata di sfiducia verso le istituzioni comunitarie? Se lo stesso Macron parla di rifondazione dell’Unione europea e chiede un rapporto più disteso con Putin (punti di contatto inequivocabili con la leader del Front national) significa che qualcosa dovrà necessariamente cambiare nella politica francese. E, quasi sicuramente, non sarà nel senso immaginato dalla Markel o da Schultz che non intendono recedere dal proposito di riaffermare l’egemonia tedesca sull’Europa conservando l’Unione così com’è.

In Francia un ciclo s’è chiuso, indubbiamente. Il sistema politico, come si prevedeva, è imploso. Curiosamente è diventato più forte l’establishment finanziario che ha sostenuto Macron il quale, ad onor del vero, pur cercando una contrapposizione fittizia tra “patriottismo” e “nazionalismo”, tanto per differenziarsi dalla Le Pen, non si può dire che non creda sul serio nella rinascita di un “destino francese”. Il problema sarà quello della strada da percorrere. Una strada tutt’altro che agevole visti gli inevitabili compagni di viaggio che dovrà scegliersi. Non c’è nessuno in Francia, in questo momento, che ritenga Fillon o un qualche esponente di rilievo del suo partito che possa condividere la strada di Macron, perché è lui stesso a non volerlo. Nello stesso tempo neppure l’opzione socialista, la più evanescente, sarebbe credibile: al contrario farebbe retrocedere l’eletto a comparsa nelle mani dei vecchi marpioni che hanno devastato un glorioso partito perciò si guarderà bene dall’accettare l’abbraccio mortale con Hollande, Valls, Hamon.

La sacca elettorale di Macron, comunque, si riempirà ancora, ma non si svuoterà quella della Le Pen. La suggestione di una destra/sinistra che mandi un avvertimento all’Eliseo comincia a prendere consistenza, senza stipulare patti, né stringere accordi sotterranei: è nell’ordine delle cose una volta che i vecchi schemi sono saltati. E se le parole d’ordine di un tempo non funzioneranno più, l’Assemblea nazionale potrebbe diventare un’arena di gladiatori. Nulla sarebbe più devastante per la Francia che ritrovarsi un presidente che non può governare, costretto a sciogliere, come uno dei suoi primi atti, il Parlamento appena eletto.

No, la partita non è finita. E’ appena incominciata.

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