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Vi spiego sfide e scenari per l’Ilva comprata da Arcelor Mittal e Marcegaglia

Paola Severino ed Emma Marcegaglia

La cordata Am Investco Italy, costituita da Arcelor Mittal e Marcegaglia, è risultata in testa nella gara per l’aggiudicazione del gruppo Ilva che comprende anche l’imponente impianto di Taranto, che è tuttora – e si spera che resti con i suoi 10.980 addetti diretti – il maggiore sito siderurgico “singolo” a ciclo integrale d’Europa, oltre che la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia. I commissari Corrado Carruba, Pietro Gnudi ed Enrico Laghi hanno consegnato al ministero dello Sviluppo economico la graduatoria delle offerte nella quale il raggruppamento Am Investco Italy, composta dal primo gruppo siderurgico mondiale e dall’italiano Marcegaglia – cui si era unito il gruppo bancario Intesa San Paolo – è risultata in vantaggio sull’altra cordata costituita dall’imprenditore cremonese del comparto Arvedi, dagli indiani della Jindal, dalla Cassa Depositi e Prestiti e dalla Delfin di Leonardo Del Vecchio. Il raggruppamento guidato dal primo produttore al mondo vede una presenza al momento limitata al 15% dell’italiano Marcegaglia, ma non è escluso che le quote possano anche cambiare in futuro.

Passando ora all’analisi del piano produttivo del cordata vincitrice – per come era stato presentato alla stampa nei mesi scorsi, anche se poi quello formalizzato nell’offerta di acquisto potrebbe mutare col passare del tempo, secondo le dinamiche del mercato – esso prevederebbe nel breve periodo il raggiungimento di 6 milioni di tonnellate di ghisa con i tre altiforni l’1, il 2 e il 4 attualmente in esercizio – senza la riattivazione al momento dell’Afo 5, uno dei maggiori al mondo – ai quali aggiungere sino a 4 milioni di tonnellate di bramme e coils laminati a caldo, trasferiti da altri siti per i lavori di finitura. Sul lungo termine, invece, l’intenzione della cordata sarebbe quella di attestare l’output di prodotti finiti a 10 milioni di tonnellate, di cui 8 provenienti dall’area a caldo. Sul piano ambientale si prevede “l’impiego di nuove tecnologie a bassa emissione di anidride carbonica, tra cui la cattura e l’utilizzo del carbonio”, ma si esclude in maniera tassativa l’uso del preridotto di ferro e dei forni elettrici che, invece, erano previsti nell’offerta dell’altra cordata – almeno secondo quanto dichiarato alla stampa da suoi rappresentanti – cui avevano guardato con interesse la Regione Puglia, i Sindacati, molti docenti universitari e altri autorevoli osservatori.

Sotto il profilo occupazionale Arcelor con gli altri componenti della cordata ha previsto un impiego di manodopera adeguato ai volumi produttivi inizialmente ipotizzati, salvo incrementarli con l’aumento dell’output complessivo. Al momento, è vigente un accordo di cassa integrazione sottoscritto il 27 febbraio scorso al Mise, con la mediazione della viceministra Teresa Bellanova, che vede un numero massimo di 3.300 lavoratori dei quali 3.260 a Taranto e 60 a Marghera impiegarla a rotazione. Gli investimenti previsti ammonterebbero a 1,1 miliardo per interventi ambientali e 1,2 miliardi per interventi sulle linee produttive. Un aspetto non secondario da analizzare, all’indomani dell’esito della gara, sarà quello del rapporto della cordata vincitrice e di chi la rappresenterà in azienda e sul territorio nei confronti delle imprese locali dell’indotto che, a loro volta, dovranno compiere ogni sforzo per migliorare le loro prestazioni, avviando anche esperienze consortili che potrebbero rafforzarle nei confronti della committenza.

Ora bisognerà verificare quanto deciderà l’Antitrust dell’Unione Europea in merito all’aggiudicazione che, non lo si dimentichi, inizialmente prevede l’affitto del ramo d’azienda essendo ancora sotto sequestro con facoltà d’uso l’area a caldo del sito di Taranto. Nei giorni scorsi dalla Commissione Europea si era sottolineato con grande chiarezza che – qualora l’esito della gara avesse rafforzato una posizione dominante sul mercato comunitario – la stessa Commissione avrebbe imposto una riduzione di capacità al soggetto aggiudicatario per non squilibrare un mercato in cui, è bene ricordarlo, è soprattutto la siderurgia tedesca guidata dalla Thyssen Krupp a voler difendere (o anche accrescere) con grande determinazione le posizioni già acquisite. Ed era evidente il riferimento di Bruxelles alla cordata guidata da quello (Arcelor Mittal) che già da tempo è il primo produttore al mondo di acciaio. Inoltre sarà da verificare quale potrebbe essere la risposta della cordata soccombente nelle sedi competenti, non esclusa proprio l’Antitrust europea. Ed inoltre, se una riduzione di capacità produttiva fosse imposta dalla UE al raggruppamento vincitore, potrebbe esserne toccato proprio il sito ionico? La domanda, da indiscrezioni che filtrano in queste ore, se la stanno già ponendo al Mise, in Parlamento, a livello sindacale e nel capoluogo ionico. E se una riduzione di capacità toccasse proprio allo stabilimento tarantino, o almeno anche ad esso, assisteremo a quanto abbiamo già conosciuto in passato quando si procedette a forti riduzioni di personale, anche se non di potenzialità produttive? A Taranto, per chi non lo sapesse o lo avesse dimenticato, abbiamo ancora da reimpiegare gli oltre 500 addetti della TCT-Evergreen che ha lasciato il molo polisettoriale e che dovranno essere assunti dall’Agenzia voluta dal Governo da costituirsi in seno all’Autorità di sistema portuale per poi essere sperabilmente ricollocati in un mercato del lavoro, comunque in affanno già da tempo nell’area.

Certo, l’inserimento dell’Ilva – che non è costituito solo dal sito di Taranto, ma anche da quelli di elevate dimensioni di Genova e di Novi Ligure e da quello minore di Marghera – nel gruppo del maggiore produttore internazionale di acciaio potrebbe essere una garanzia per il futuro produttivo e occupazionale dello stabilimento ionico: potrebbe, il condizionale è d’obbligo, essendo poi le dinamiche del mercato e la redditività dell’impianto locale a stabilire il suo futuro, ma è appena il caso di rilevare che Arcelor gestisce altri siti di notevole capacità in Belgio, a Gent e a Fos vicino Marsiglia e, pertanto – in una logica comprensibile di governo complessivo di un insieme di suoi stabilimenti europei – potrebbe non avere interesse a far crescere oltre un certo livello la produzione di Taranto che non dovrebbe mai andare in concorrenza con quella di altri impianti dello stesso gruppo proprietario.

Sarà interessante verificare ora anche la reazione dei consumatori italiani di prodotti siderurgici dell’Ilva che operavano in filiera e a valle soprattutto con le produzioni del sito di Taranto. Avranno timore di una posizione dominante sul mercato nazionale di Arcelor che peraltro nel 2015, al fine di operare come Centro Servizi per acciaio al carbonio, ha costituito con il gruppo CLN la Arcelor Mittal CLN Distribuzione Italia con 615 addetti, 3.500 clienti, 650 milioni di fatturato e con sede principale a Caselette vicino Torino.

L’auspicio che tutta la comunità pugliese e tarantina sente di dover esprimere in questo momento è che se l’acquisizione definitiva dell’Ilva da parte della cordata Am Investco Italy sarà confermata nella fase conclusiva della procedura di vendita, il governo – per quanto di sua competenza – vigili sul rispetto delle clausole contrattuali. Sarà compito inoltre di tutto il movimento sindacale e dell’imprenditoria italiana legata alle trasformazioni dell’output di Taranto fare in modo che siano tutelati, ovviamente in esclusive logiche di mercato, gli interessi della business community nazionale e con essi quelli del mondo del lavoro regionale e soprattutto della comunità tarantina cui dovranno essere date garanzie assolute di rispetto nel Siderurgico degli standard ambientali previsti dall’Aia che saranno fatte rispettare in modo assolutamente rigoroso.

Spiace infine, in un momento di presumibile soddisfazione dei componenti della cordata vincitrice, dover ricordare che proprio a Taranto il Gruppo Marcegaglia dopo alcuni anni ha dismesso una sua postazione produttiva nel compatto meccanico, lasciando al momento senza occupazione oltre 70 unità che vi erano impiegate. E il Movimento sindacale e tutta la città non lo hanno certo dimenticato.

Federico PirroUniversità di Bari



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