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Perché non ripensare l’obbligatorietà dell’azione penale? Le idee di alcuni magistrati

Tempo fa un’inchiesta ha coinvolto gli organismi giudiziari francesi e italiani. In Francia la conclusero in sei mesi con una motivazione di 12 pagine, in Italia ci sono voluti sette anni e una motivazione di 3mila pagine. “Parbleu!” direbbero a Parigi mentre non si può scrivere come gli italiani commentano le lunghezze della giustizia. L’esempio è stato fatto dal procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone (nella foto), alla presentazione dell’ultimo libro di Michele Vietti, “Mettiamo giudizio. Il giudice tra potere e servizio” (Egea, Università Bocconi editore), cui ha partecipato anche Francesco Caringella, presidente di sezione del Consiglio di Stato, moderatore il direttore del Foglio, Claudio Cerasa.

Vietti ha una lunga esperienza giuridica. Avvocato, docente universitario, già sottosegretario alla Giustizia e vicepresidente del Csm, ha raccolto nel volume alcune proposte nate dalla sua esperienza di presidente della Commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario voluta dal ministro Andrea Orlando. Temi fondamentali per una buona amministrazione della giustizia e storicamente divisisi: la razionalizzazione della geografia giudiziaria, il tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale, il rapporto tra magistrati e politica, la selezione delle toghe e un trasparente sistema disciplinare.

Decisioni diverse per fatti uguali e tempi lunghi trasformano la giustizia in un lusso perché spesso conta la disponibilità economica: se il costo non è sostenibile, secondo Caringella siamo al “vulnus della democrazia”. Pignatone, più pragmatico, ha rilevato che “la giustizia giusta è quella che rispetta le regole in un certo momento e in un certo luogo” e che i tempi lunghi hanno due spiegazioni principali: un sistema con tre gradi di giudizio, unico in Europa, senza contare gip e tribunale del riesame, e la mancanza di risorse. “Non dico di abolire l’appello in generale – ha aggiunto –, ma almeno per reati come le violazioni del codice della strada o le liti condominiali. Abbiamo scelto un sistema ipergarantista e ne paghiamo le conseguenze”. Riguardo alle risorse, il procuratore ha lamentato che il ministero della Giustizia sia l’unico che da 21 anni non faccia assunzioni (“con governi di ogni colore, sia in tempi di vacche grasse che di spending review”) dando atto al ministro Orlando di aver indetto un concorso che l’anno prossimo consentirà l’arrivo di 1.400 assistenti.

Caringella ha condiviso con Vietti la necessità di migliorare la geografia giudiziaria, concentrando gli uffici e abolendo i tribunali più piccoli, e ha ammesso che “l’obbligatorietà dell’azione penale non ci fa stare bene”. Tema spinoso sul quale Pignatone ha buttato la palla alla politica: “Se si dettano criteri di priorità saremo lieti di applicarli” perché “non possiamo trattare tutti i reati che ci arrivano sul tavolo”. Inevitabili le scelte, inevitabile che i casi meno importanti siano trattati per ultimi anche se “è inaccettabile che un caso sia lasciato morire nel cassetto”. A questo si aggiunge il tema della prevedibilità delle decisioni e anche qui l’elefantiaco sistema italiano non aiuta. Ancora Pignatone: “Nel penale la Cassazione tedesca emette circa 4mila o 5mila sentenze l’anno, la Cassazione italiana 58mila. In questo modo un magistrato troverà sempre una sentenza che fa al caso suo cercando un precedente negli ultimi 10 anni, cioè tra 580mila sentenze”.

“In politica non mi vedranno, mettiamoci il cuore in pace”. Il procuratore di Roma ha sgombrato il campo quando il dibattito è arrivato al tema dei magistrati che diventano politici. Nel suo libro, Vietti è netto: “Le due carriere, quella di magistrato e di politico – scrive – sono ontologicamente incompatibili”, chi intraprende la strada della politica “deve percorrerla fino in fondo” e dunque “senza poter più tornare indietro”. Tesi condivisa dai relatori: Caringella ha chiesto di porre “paletti” in uscita e soprattutto al “rientro”, per Pignatone sarebbe giusto che la toga non tornasse in magistratura “e ora l’Anm è su questa posizione”. Alla domanda di Cerasa se sia più pericoloso il magistrato in politica o quello che “fa” politica, Vietti non ha avuto dubbi: “Fa più danno chi fa politica con la toga”. Le conclusioni dell’ex vicepresidente del Csm sono state chiare. Sul tema dell’organizzazione, “a persone che devono esercitare un potere così grande bisogna dare un forte supporto organizzativo e di regole”. I magistrati, ha detto Vietti, “hanno la tentazione del solista, noi dobbiamo spiegare che si canta nel coro perché va valutata la risposta di giustizia e non il protagonismo, una risposta che deve rispettare tempestività, prevedibilità, uniformità”. Per questo sono necessari uffici giudiziari di media o grande dimensione perché nei piccoli uffici non ci possono essere specialisti e “non servono i tuttologi”.

Anche se i relatori erano tecnici, la politica aleggiava su di loro. Perché le norme proposte da Vietti abbiano successo “occorre fugare definitivamente la logica dell’assedio in cui la magistratura si ritrova nell’improprio ruolo di assediato e la politica in quello altrettanto improprio di assediante” come scrive nell’introduzione del libro. Concetto di assedio che, sottolinea con piacere Vietti, è stato respinto dal Csm nel parere sulla riforma dell’ordinamento. Memore dell’esperienza al Consiglio superiore, esponente moderato dopo molti anni di vicepresidenti di sinistra, Vietti si augura che il vento cambi e che le relazioni tra i due mondi migliorino. Con tutti gli appuntamenti elettorali in vista e inchieste che spuntano dappertutto non sarà facile.


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