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Isabella Gonzaga e Lucrezia Borgia a confronto nel saggio di Alessandra Necci

Chi cercasse in Isabella e Lucrezia, le due cognate di Alessandra Necci, edito da Marsilio (pp.671, € 19,50), soltanto le parallele biografie delle due dame che segnarono il segmento più seducente, intrigante, crudele e contraddittorio del Rinascimento, rimarrebbe deluso. Infatti il saggio è molto di più di quanto promette il titolo. E’ la storia di vicende intrecciate, come poche volte è accaduto nella storia conosciuta, nelle quali le ragioni individuali e quelle del familismo amorale si tengono con le convulsioni politiche che scuotono l’Italia massacrata dagli eserciti stranieri e dall’ingordigia di signorotti che si ammazzano tra di loro, mentre emerge una timida idea di unità nazionale, molto lontana dall’essere improntata alla realizzazione del “bene comune”, vagheggiata da un pontefice malfamato, Alessandro VI Borgia, “immoralista” per eccellenza, ma grandissimo statista, e da suo figlio Cesare, il famigerato duca Valentino, il solo tra gli sparvieri che attraversano la Penisola ad avere una visione, una prospettiva, un sogno e per questo amato, sia pure a suo modo, da Niccolò Machiavelli.

Insomma, Isabella Gonzaga, nata d’Este, “marchesana” di Mantova e Lucrezia, figlia del Papa, duchessa di Ferrara dopo fidanzamenti e matrimoni andati a male, sono le figure che giganteggiano nel poderoso saggio “rinascimentale” della Necci alla quale offrono il pretesto per raccontare, in maniera suggestiva ed originale, l’evoluzione del potere e dei costumi tra la corte pontificia e quella delle signorie dell’epoca, offrendoci un’immersione nel cammino che l’Italia, lontana dall’essere una nazione, ma di certo culla di civiltà, aveva compiuto dal Medioevo teocratico per approdare poi al personalismo interpretato da Papi, imperatori, avventurieri, nobili e mistici, mercenari e guerrieri valorosi, artisti, poeti e musicisti sullo sfondo di una sorta della religione dell’amore coltivato in maniera pagana pur avendo il cristianesimo come riferimento. La Necci nel suo racconto si tiene alla larga dei pregiudizi, come ogni storico dovrebbe fare, ed attingendo alle fonti più autorevoli perviene alla conclusione che l’amore, sensuale o platonico, fu comunque in quell’epoca convulsa una espressione della bellezza i cui segni sono talmente evidente nei lasciti artistici che possiamo ammirare e che immeritatamente abbiamo ereditato visto come li trattiamo ed in quale considerazione li teniamo.

Le due fanciulle sono la sintesi di tutto questo. Sono il Rinascimento, “simboli di un tempo senza tempo, che ancor oggi resta scolpito nell’immaginario collettivo come l’espressione di quanto sublime – o forse divino – contiene l’animo umano”, scrive la Necci. E “fotografia” più riuscita di Isabella e Lucrezia non avrebbe potuto mostrarci. Sarebbe piaciuta a Gregorovius e a Burckhardt che pure avrebbero apprezzato la narrazione dell’ascesa, della conquista del potere e della fine delle due cognate, così diverse ma tanto uguali nel concepire la vita improntata essenzialmente alla realizzazione di se stesse attraverso la seduzione prescindendo dai metodi e dai sistemi. Temperamenti diversi, è ovvio, percorsi assai dissimili, ma quanto uguali le ambizioni, tante volte frustrate, messe a disposizione di interessi altrui: due illustri casate la prima, il papato spagnolo la seconda. E, naturalmente, non potevano che detestarsi anche perché la “marchesana” perseguiva, in linea con la concezione dell’esercizio del potere appresa da Ercole d’Este suo padre, la difesa dei suoi possedimenti ed il loro ingrandimento attraverso influenze dirette ed indirette, alleanze lecite ed innaturali. La duchessa di Ferrara, al contrario, diventata tale alla fine di calcoli feroci e crudeltà inaudite, ma finalmente appagata dall’amore dopo che le era stato criminalmente sottratto, ambiva a conquistare il suo nuovo popolo con la sola arma della seduzione con la quale amava apparire che nascondeva le qualità politiche dei Borgia la cui caduta non travolse comunque anche lei che nella sua permanenza accanto ad Alfonso d’Este ebbe modo di catturare i sentimenti di molti uomini ed in particolare di colui che meglio di altri fu interprete di un Rinascimento pagano, ma non meno cristiano, cattolico e romano e perciò “enigmatico”: Pietro Bembo.

Eccole le pagine che rivelano Alessandra Necci come un’autentica scrittrice dopo averci convinto di essere una valente saggista: Lucrezia ed il Bembo innamorati, folli di desiderio, appagati, nel livido mondo che si scanna attorno a loro, dalle parole e dalle estasi che accompagnano gli incontri ed i pensieri; sono pagine che raramente si leggono, non solo nei romanzi storici, ma nelle prove narrative contemporanee a dimostrazione che l’autrice ha interiorizzato la bellezza e la purezza della scrittura frequentando a lungo i “maestri” giusti che non è difficile rintracciare nella sua prosa, magari dando uno sguardo anche ai libri precedentemente pubblicati.

Ma la Necci ama anche la politica che intellettualmente coltiva, oltre all’arte e per questo le viene facile tracciare profili tanto complessi come quelli di Isabella e Lucrezia che se sono i paradigmi di un’epoca, annunciano pure i tempi che verranno. Sono insomma due donne “moderne” nell’accezione migliore e chi si soffermasse moralisticamente a giudicarle rischierebbe non comprenderle e di non capire quel tempo inaugurato da Rodrigo Borgia asceso al trono papale nello stesso anno nel quale Cristoforo Colombo scopre il Mondo nuovo (imperscrutabili i segni del destino!), il quale, come osserva la Necci è “sensibile alle suggestioni intelligenti, capace di ‘includere’ e ‘inglobare’ piuttosto che eliminare e tagliar via, agile nel coniugare la passione rinascimentale per la classicità e il paganesimo con i doveri cattolici di Vicario di Cristo”.

E a questa “sensibilità” che soprattuto Lucrezia, a fronte della più pragmatica ed arida Isabella, ispira la propria vita nella quale l’affetto filiale e familiare ha la prevalenza su tutto, mentre trascorrono gli amori del padre e quelli non meno accesi del fratello tra scorribande militari, eccessi di crudeltà e progetti politici che soltanto tre secoli dopo sarebbero stati se non apprezzati almeno riguardati come “profetici”.

Le biografie sono parallele, indubbiamente. Ma le personalità di Isabella e Lucrezia, unite e disunite nella fortuna dinastica e nella disgrazia politica, necessitate ad una convivenza sia pure a distanza dalle logiche di potere che il più delle volte finiscono per farle entrare palesemente in conflitto, sono due modi di guardare al Rinascimento, “epoca magnifica e tragica”, come le definisce l’Autrice nelle pagine conclusive del saggio dove, quasi nel prendere commiato dalle signore che le hanno tenuto compagnia nel tempo della ricerca e della scrittura, le considera “punti di partenza e riferimento, e al tempo stesso terminali da cui tutto si dipana e a cui tutto torna”; insomma entrambe “si intersecano, si interfacciano inoltre con molti degli eventi che hanno segnato quel periodo”. Isabella e Lucrezia, insomma sono il Rinascimento. Un periodo storico che nessuno all’epoca si è mai sognato di definire tale e si è dovuto attendere i romantici a cavallo tra Sette e Ottocento per avere una classificazione che rendesse giustizia all’epoca dominata dagli amori illeciti o peccaminosi, dalla sanguinosa disputa di territori, imperi e sedie gestatorie, eppure immerso nella ricerca della bellezza come e più forse di quanto accadeva nell’Atene di Pericle. Poi qualcuno ha pensato di dimostrare come esso fosse la continuità naturale del Medioevo ed in effetti senza Dante, Petrarca, Giotto non vi sarebbero stati i geni che ci hanno lasciato le preziosità vaticane, mantovane e ferraresi, oltre alle opere letterarie su cui si è fondata la costruzione dell’identità della nazione italiana proprio nel momento nel quale questa sembrava un’utopia e la “nave senza nocchiero in gran tempesta” veleggiava verso il nulla…

L’appassionante lettura di Isabella e Lucrezia, le due cognate è un viaggio lungo un cinquantennio nel quale la preconizzazione di tutto ciò che in seguito sarebbe accaduto viene colto con uno spirito quasi “entomologico” dal momento che l’Autrice riesce a guardare nel profondo nei nidi delle corti, come si fa negli habitat degli insetti, e a sezionare psicologicamente i protagonisti ed i deuteragonisti di una storia breve e complessa della quale, secondo la vulgata corrente, non si dovrebbe salvare quasi nulla, se non la celebrazione della bellezza. Non è così. E Alessandra Necci lo dimostra con i documenti e l’oggettiva narrazione dei fatti la cui complessità non può essere l’alibi per distruggere un’epoca nella quale la morale corrente sarebbe sbagliato giudicarla con i canoni contemporanei.

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