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Il sistema militare americano e la rete elettrica Usa

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Da una parte ci sono esagitati armati di copie cinesi di kalashnikov e camion carichi di esplosivo oppure psicopatici che lanciano missili balistici teoricamente intercontinentali che cascano dopo solo mille km. Dall’altra c’è una superpotenza militare dotata delle più sofisticate tecnologie, dai droni telecomandati che possono colpire dall’altra parte del pianeta al più grande sistema di armi e vettori nucleari del mondo. Il risultato di un possibile conflitto sembrerebbe scontato. Sembrerebbe.

Tutto il sistema militare americano, proprio a causa della sua sofisticatissima tecnologia, è fortemente dipendente dalla rete elettrica che alimenta l’elettronica ormai presente ovunque, dalle portaerei nucleari fino ai caschi dei soldati sul terreno.

Se le centrali elettriche o le griglie di distribuzione civili vengono interrotte, l’intero sistema militare americano può collassare o risultare fortemente compromesso.

All’inizio di quest’anno il Dipartimento dell’Energia USA ha pubblicato uno studio dettagliato di 500 pagine “Trasformando il sistema elettrico nazionale” in cui avverte che è solo una questione di tempo prima che salti la sempre più complessa griglia elettrica che interconnette le centrali e tutte le utenze strategiche, inclusi i principali sistemi di difesa. Il disastro potrebbe essere provocato da un evento accidentale oppure da un attacco mirato.

Ma pochi giorni fa un nuovo studio pubblicato in Renewable and Sustainable Energy Reviews di ottobre 2017 ha delineato i tre scenari che possono lasciare al buio le installazioni militari. Nello stesso studio si individua anche la soluzione: l’installazione di micro e marcoimpianti fotovoltaici direttamente connessi con le strumentazioni che richiedono alimentazione elettrica.

La prima minaccia al sistema militare americano viene dalla natura stessa: negli Stati Uniti gli eventi naturali che provocano blackout causano danni da 25 a 70 miliardi di dollari. E questi sono dati medi che distribuiscono statisticamente anche i sempre più frequenti grandi disastri come quelli provocati dagli uragani Harvey e Irma.

La seconda minaccia viene da atti di sabotaggio provocati da criminali o da terroristi. Per esempio, nel 2013 in California, un gruppo di tiratori scelti riuscì a bloccare diciassette trasformatori in 19 minuti semplicemente aprendo il fuoco sui radiatori con fucili di precisione in libera vendita. Gli apparati si surriscaldarono e si spensero automaticamente per evitare danni maggiori. Fortunatamente i tecnici della Pacific Gas & Electric riuscirono a attivare centrali termoelettriche di backup ed a dirottare elettricità da altre regioni per evitare di mandare al buio l’intera Silicon Valley.

La terza minaccia alla rete elettrica deriva da un’altra rete: Internet. Nel solo 2012 il Dipartimento americano per la sicurezza interna è dovuto intervenire circa 200 volte per neutralizzare altrettanti attacchi informatici contro settori critici delle infrastrutture a stelle e striscie. Metà di questi attacchi erano diretti contro gli impianti di produzione e distribuzione di energia elettrica. Lo studio prima citato stima che un attacco organizzato alla rete elettrica potrebbe provocare un danno stimato in mille miliardi di dollari.

La CIA sostiene di avere individuato hacker provenienti da Cina e Corea del Nord mentre cercavano di penetrare nei sistemi di controllo delle centrali. Gli stessi americani hanno fatto fuori con il virus Stuxnet centinaia di ultracentrifughe per l’arricchimento dell’Uranio necessario per le centrali nucleari iraniane. E pare che l’attacco del 23 dicembre 2015 contro le centrali ucraine sia stato provocato da BlackEnergy, un virus che gli ucraini sostengono provenga da hacker governativi russi.

La Symantec – una delle principali compagnie produttrici di soluzioni di sicurezza informatica – ha recentemente individuato hackers annidati nella griglia elettrica americana.

Riassumendo, un blackout di grosse dimensioni, provocato dalla natura o da terroristi, può facilmente travolgere l’elasticità della griglia stessa e mettere in crisi anche i sistemi di riserva costituiti da centrali termoelettriche mantenute a basso regime ma pronte ad andare a pieni giri in caso di necessità. Inoltre, lo squilibrio nella griglia potrebbe durare molto tempo prima che i sistemi attaccati possano tornare in produzione. Si pensi che ci volle un mese e cento milioni di dollari prima che fossero riparati i diciassette trasformatori californiani presi semplicemente a fucilate.

Quello che preoccupa ora il governo americano non sono solo case, ospedali, fabbriche e trasporti lasciati al buio, ma soprattutto le conseguenze di blackout nelle basi militari.

Per fare fronte alle tre minacce prima descritte non è sufficiente installare generatori diesel accanto alle infrastrutture critiche: in caso di blackout prolungato anche il rifornimento di carburanti può andare in crisi.

Per questo il Ministero della Difesa USA punta sulle rinnovabili. Il Congresso ha deliberato che entro il 2025 le istallazioni militari dovranno ottenere almeno il 25% dell’energia che consumano da fonti rinnovabili. Facendo le somme, questo significa che 3 GigaWatt (GW) di energia elettrica sarà prodotta ogni anno da impianti fotovoltaici con le stellette.

Ma anche questo obiettivo cadrà corto come un missile di Kim Yong Un: per rendere le Forze Armate statunitensi energeticamente indipendenti sono necessari 12 GW; che salgono ad almeno 17 GW prendendo in considerazione l’intera potenza richiesta dalle istallazioni militari sul territorio.

A queste, però, si aggiungono le esigenze elettriche delle basi militari USA sparse in tutto il mondo. Sono ancora più vulnerabili perché ricevono l’elettricità da infrastrutture esterne che gli americani controllano solo in minima parte.

Per avere un’idea dell’impegno necessario alla difesa USA, nel 2015 sono stati raggiunti i 20 GW di potenza prodotta dal Sole per usi civili sull’intero territorio degli Stati Uniti.

E’ evidente che le compagnie che riforniscono la Difesa USA si sono buttate sull’affare e stanno investendo in tecnologie fotovoltaiche. La Lockheed, ad esempi,o ha già installato a Fort Bliss un impianto da 120 KW pronto a sfruttare il sole texano e ad alimentare un sistema di batterie in grado di immagazzinare fino a 300 KW per garantire continuità elettrica all’ U.S. Army’s Brigade Combat Team.

Questo potrebbe provocare un’ulteriore accelerazione allo sviluppo delle tecnologie fotovoltaiche con evidenti ricadute positive anche nel settore civile.

I russi, invece, hanno scelto una strada diversa: puntano su una rete di distribuzione ampiamente ridondante alimentata da centrali elettronucleari mobili installate su navi ma anche su grossi camion e slitte. Questo permetterebbe di spostare con relativa facilità le sorgenti di energia lungo le coste, sulle strade e nelle regioni artiche per fare fronte alle fluttuanti esigenze della rete.

Il ministero della Difesa russo prevede di montare le centrali a bordo di camion Kamaz o Maz ma anche di aviotrasportarle non solo a bordo dei giganteschi aerei da trasporto Antonov, ma anche degli elicotteri Mil MI-26. Questo le renderebbe non solo facilmente dislocabili dove serve ma, soprattutto, difficilmente individuabili in caso di attacco nemico.

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