Risolta (o meglio, tamponata) temporaneamente l’emergenza dei flussi migratori che ha raggiunto picchi record quest’estate, l’Europa non può più ignorare il problema dell’instabilità politica ed economica della Libia, terreno fertile per il traffico di vite umane. In questi mesi si sono susseguiti i blitz del ministro dell’Interno Marco Minniti per parlare con le tribù e i sindaci libici, e quello del presidente francese Emmanuel Macron per incontrare Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar, più utile ai fotografi della stampa internazionale che al raggiungimento di una intesa sul lungo periodo.
Nel frattempo la Libia resta divisa in fazioni avverse (non solo due, come spesso semplificano alcune ricostruzioni), una scacchiera dove è in gioco non solo il futuro dell’Africa mediterranea, ma anche gli equilibri in Medio Oriente. Da questa incertezza imperante che grava sulla sorte del Paese nasce il titolo del nuovo libro di Michela Mercuri, docente di storia contemporanea dei Paesi Mediterranei all’Università di Macerata, “Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso” (FrancoAngeli). Presentato alla Camera dei Deputati giovedì assieme al sottosegretario agli Esteri Vincenzo Amendola, il professor Roberto Aliboni dello IAI, l’inviato de Il Sole 24 Ore Alberto Negri, il volume ricostruisce lo scenario libico alla luce delle contraddizioni storiche e politiche che ne hanno segnato l’evoluzione.
Dalle scimitarre dell’impero Ottomano alle prime esplorazioni del XIX secolo, passando per le rocambolesche imprese coloniali italiane nello “scatolone di sabbia” (così chiamava la Libia Gaetano Salvemini ignorando il tesoro petrolifero che giaceva sotto le sue dune). Dall’incontro del presidente Aldo Moro con Muhammar Gheddafi, quando il colonnello fissò il democristiano dall’alto in basso senza scendere da cavallo, fino al declino dell’era Gheddafi e alla frammentazione del Paese, la ricerca offre una chiave di interpretazione anche e soprattutto per seguire l’attuale partita europea in Libia.
Dura la critica della studiosa all’intervento militare del 2011 di francesi, inglesi e italiani, mirato non alla ricostruzione dell’assetto democratico libico, ma alla mera difesa degli interessi nazionali: “Abbiamo defenestrato Gheddafi e lasciato la Libia da sola. Nicolas Sarkozy non ha fatto in tempo a seppellire il colonnello che già firmava accordi con la Total”.
Una lettura condivisa in pieno da Amendola, che bacchetta le scelte dell’allora inquilino della Farnesina Franco Frattini e il “riarmo morale della politica estera europea”. “La democrazia è un processo storico che si costruisce con grande difficoltà” chiosa il sottosegretario del Pd, che per una giusta lettura dell’assetto presente invita a non cedere “allo stereotipo di vedere le fazioni di Haftar e al-Sarraj come due squadre di calcio”, e riconosce gli errori della comunità internazionale: “cercare un accordo fra due capi politici senza coinvolgere la realtà tribale libica è stato un errore conclamato”. Ciononostante difende a spada tratta la scelta del governo Renzi di puntare sul lato Tripoli per ricostruire lo Stato libico: “Grazie al contributo testardo dell’allora ministro Gentiloni, abbiamo riaperto l’ambasciata a Tripoli. C’è chi dice che al-Sarraj non è nessuno, ma è una contraddizione. Potrà non avere il pieno controllo del territorio, ma si trova lì in base a una risoluzione votata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU”.
Se Amendola dunque salva (in parte) la politica estera italiana in Libia degli ultimi anni, ben più impietoso è il bilancio di Alberto Negri, che come inviato de Il Sole 24 Ore ha vissuto dal vivo il crollo del regime di Tripoli. “Per quarant’anni Gheddafi ha dato da mangiare ai libici, distribuendo le fette della torta del petrolio. Quando Gheddafi è venuto meno, il Paese si è sbriciolato” spiega il giornalista, che vede nella guerra aerea contro il colonnello la disfatta della politica estera italiana, “secondo voi come viene percepito nella scena internazionale un Paese che fa la guerra al suo migliore alleato?”.
Una responsabilità che, aggiunge Negri, facendo arrossire Amendola (che, va detto, all’epoca non era deputato) grava ancora oggi sulle spalle di quasi tutte le forze politiche: “Il 30 agosto 2010 a Tor di Quinto eravamo in 5000 ad omaggiare il Colonnello. Non mi ricordo un partito politico, ad eccezione dei radicali, che mise in dubbio gli accordi con gli alleati. Non mi ricordo che qualcuno sia sceso in piazza quando Gheddafi faceva fuori gli oppositori”.
La sfida per l’Europa oggi è dunque quella di ricucire le ferite apertesi nel 2011, e allargatesi a dismisura con la guerra civile del 2014 e l’avanzata di Daesh ad Est. L’instabilità politica e le cicatrici nel tessuto sociale sono anche dovute allo spietato repulisti delle fazioni succedute a Gheddafi, passato sotto l’occhio indifferente della comunità internazionale. “Gli ex gheddafiani che avevano combattuto a fianco della rivoluzione avevano disertato il campo di Gheddafi” riconosce il professor Aliboni, “forse non bisognava chiudere loro tutte le porte”.
Oggi, allontanati i tagliagole islamisti da Sirte, l’unica via per l’unità politica è un accordo che, oltre a Tripoli e Tobruk, includa la costellazione di tribù libiche che esigono una fetta di torta. A differenza della Francia, “che firma gli accordi di Skhirat e poi vende le armi a Tobruk”, spiega la Mercuri, l’Italia è sulla buona strada: “perché in Libia c’è l’Eni, perché l’Italia conosce il territorio e soprattutto perché coinvolge gli attori locali, che chiedono a gran voce il riconoscimento degli italiani”.