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George Papadopolous, cosa ha combinato il consigliere di Trump con l’Fbi su Clinton e Russia

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A fine luglio George Papadopolous, consigliere della campagna elettorale di Donald Trump sugli affari internazionali, è stato preso sotto custodia dell’Fbi e si è dichiarato colpevole di falsa testimonianza. Interrogato dai Federali mesi fa, aveva dichiarato di non aver mai avuto contatti con funzionari del governo russo, ma poi ha ammesso che in realtà, durante la campagna, ha avuto incontri con uomini del Cremlino per ricevere consigli e informazioni per screditare il nome della concorrente democratica Hillary Clinton. La notizia è uscita lunedì, insieme ad alcuni atti processuali.

OLTRE MANAFORT

Questa che riguarda Papadopolous è la seconda bomba caduta in poche ore dal Russiagate, l’inchiesta che sta scavando sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali, sulle potenziali collusioni tra queste e la campagna Trump, e sulle eventuali mosse del presidente per ostacolare l’indagine. La prima, più rumorosa, uscita sempre lunedì 30 ottobre, è stata l’incriminazione di Paul Manafort, ex capo della campagna elettorale di Trump, che si è consegnato insieme al suo ex socio Rick Gates all’Fbi. Mentre le accuse contro i due (cospirazione contro gli Stati Uniti, riciclaggio di denaro, frode fiscale, violazione delle leggi sulle lobby e falsa testimonianza), sempre alzate dallo special counsel che per il dipartimento di Giustizia sta indagando il Russiagate, sono laterali all’inchiesta e non toccano – per quanto noto finora – il presidente e il suo clan, quella di Papadopolous è una questione che entra esattamente nel grande tema della “collusion“. Trump si è difeso attaccando – oltrepassando quelle che era stato annunciato due ore prima dai suoi portavoce (potremmo non aver niente da dire, dicevano alla CNN). Su Twitter ha parlato della vicenda-Manafort dicendo che non c’erano collusioni, ma quella di Papadopolous è una questione che invece ruota esattamente attorno a queste.

PAPADOPOLOUS COLLABORA

L’ex consigliere di Trump sta collaborando con l’inchiesta, e questo, unito all’arresto di Manafort (che ha collaborato informalmente col team-Trump fino a pochi mesi fa), è un altro degli elementi che deve aver mandato su tutte le furie il presidente, descritto dai media americani (le fonti del Washington Post e dell’Associated Press su questo aspetto “rule the day“) come “fumante”; l’espressione ricorda quella con cui un insider descrisse, sempre al WaPo, un Trump come “una pentola a pressione” qualche settimana fa. Papadopolous, per quanto noto, avrebbe ammesso di aver tenuto lui stesso incontri con uomini mandati dal governo russo i quali gli dissero di essere in possesso di migliaia di mail compromettenti sul conto di Clinton e dei democratici. Non è difficile pensare che potrebbero essere state quelle sottratte da un attacco hacker di cui le intelligence americane incolpano apertamente i servizi segreti russi (e per cui la Casa Bianca s’è trovata costretta ad alzare nuove sanzioni su Mosca). WikiLeaks le pubblicò poi a luglio, dopo un’imbeccata di un anonimo benefattore che le passò all’organizzazione di Julian Assage (su cui pende il sospetto di essere stato un nodo del network). Papadopolous dice di esserne entrato a conoscenza già ad aprile, e di aver informato altri membri del comitato Trump sulla faccenda. Per esempio: nelle carte giudiziarie pubblicate si legge che era in continuo contatto con un “supervisore”, il quale gli suggerì di andare a Mosca. O ancora: il 19 giugno del 2016 inviò una mai con oggetto “Nuovo messaggio dalla Russia” a un non specificato “High ranking campaig official“, scrivono gli inquirenti. In quel momento il più alto in grado della campagna era proprio Manafort.



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