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Perché Bruxelles sbaglia bersaglio sui conti italiani

La replica di Pier Carlo Padoan a Jyrki Katainen, (in foto), – “non rispondo a costui” –  è stata più che appropriata. Le provocazioni non vanno accettate. Né i giudizi sommari, spesso frutto di un transfert psicologico. L’Italia non è la Finlandia. Ed in Italia il governo non ha il monopolio dell’informazione economica. Il dibattito coinvolge centinaia di osservatori che, a vario titolo, si occupano dei problemi economici e sociali del Paese. I dati prodotti da decine di Osservatori – sia privati sia istituzionali – sono analizzati, confrontati e verificati: che si tratti di Banca d’Italia, della Corte dei conti, dell’Istat o delle grandi centrali internazionali: dalla stessa Commissione europea, all’Ocse, al Fmi, fino alle diverse Agenzie di rating. Dire quindi che l’informazione sia carente o manipolabile è solo un azzardo senza senso. Del resto se fosse così, non esisterebbero quelle forze populiste, che devono quasi tutto all’esatta percezione delle carenze che, purtroppo, si riscontrano nella vita politica del Paese.

Detto questo, tuttavia, non bisogna esagerare sul fronte opposto. Ritenere che la misurazione delle distanze tra la situazione italiana ed il resto dell’Europa costituisca una semplice “retorica” – come ha detto Paolo Gentiloni – è altrettanto fuorviante. Il problema dell’unità di misura, con cui valutare i fenomeni economici, è stato da sempre un grande tema dell’economia. David Ricardo, forse il più grande degli economisti classici, ad esso ha dedicato un’intera vita. L’Italia vive in una realtà – quella dell’Eurozona – più ampia. Dire, quindi, che le distanze sono aumentate e che la sua posizione è quella del “fanalino di coda” ha un significato preciso. Si sceglie come unità di misura il tasso di crescita di questa più ampia realtà, come parametro di riferimento. Operazione, del resto, che compiamo ogni qual volta paragoniamo il tasso di crescita del Mezzogiorno, o di qualsiasi altro territorio, con il dato nazionale.

Sgombrato l’equivoco, è bene entrare nel merito dei dati. Il tasso di crescita del Pil del terzo trimestre è estremamente positivo. Si è trattato di un piccolo strappo, rispetto ad un più lungo passato. Anche se quell’1,8 per cento deve tener conto, della minor crescita del corrispondente trimestre dell’anno precedente: una correzione statistica che lo riduce di circa lo 0,1 per cento. Poca cosa, ma è bene essere precisi. Com’é andato nel resto dell’Eurozona? I dati sono quelli forniti da Eurostat (newsrelease del 14 novembre 2017). Come si può vedere dal grafico, l’Italia si colloca nelle ultime posizioni, sia che si tratti dell’andamento congiunturale (incremento rispetto al trimestre precedente). Sia si tratti di quello tendenziale (incremento sul corrispondente trimestre dell’anno precedente) dove la situazione è ancora peggiore. Poi ciascuno può condirli come più gli piace.

Marco Fortis, ad esempio, dalle colonne de Il Foglio, citando i dati della produzione industriale, sempre riferiti al terzo trimestre del 2017 e quindi compresi nella dinamica del Pil, colloca l’Italia in prima posizione (più 1,5 per cento). Per giungere alla conclusione che “dispiace per i più strenui propugnatori del malumore, ma l’insopportabile litania del ‘fanalino di coda’, alla quale l’Italia viene spesso accumunata fino alla  nausea, ha ormai le ore contate”. Potenza dell’ottimismo. Noi naturalmente facciamo il tifo e speriamo che abbia ragione. Però rimaniamo anche con i piedi per terra, in attesa che la profezia si avveri. Nel frattempo respingiamo alla Commissione europea le accuse che, con una certa superficialità, ci vengono rivolte. Se i conti pubblici non sono a posto – ma aspettiamo analisi più circostanziate – se il rapporto debito pubblico-Pil cresce, questo non è colpa degli italiani (reduci da tanti sacrifici: basti guardare al tasso di disoccupazione o alla crescita dei livelli di povertà assoluta e relativa), ma delle politiche deflattive che ci sono state imposte.

Il non inserire nelle valutazioni del quadro macroeconomico, il peso del surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, porta, inevitabilmente, ad un equilibrio di sottoccupazione. Che si manifesta nel mancato riassorbimento della disoccupazione in eccesso, nella compressione della domanda effettiva – sostenuta in prevalenza dalle sole esportazioni – in un tasso di inflazione più contenuto rispetto alle tendenze dell’Eurozona. In simili circostanze il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato non cresce in modo adeguato e di conseguenza peggiorano tutti i rapporti finanziari. Lo ha più volte sottolineato con chiarezza il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, sia nelle sue ultime considerazioni finali, sia in specifici interventi successivi.

Questo significa lastricare la via della politica economica di bonus e di prebende? Non è questo che chiediamo. Ma di innalzare il tono complessivo della nostra economia grazie ad una più robusta iniezione di investimenti pubblici e privati ed una riduzione del carico fiscale, in una prospettiva di riordino complessivo di quel sistema, le cui basi sono rimaste agli anni ’70 (la riforma Cosciani-Visentini) quando si telefonava solo con il gettone. Ed il vecchio Commodore 64 – archeologia informatica – era l’unico segnale di vita nel mondo dei computer.

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