Un elettorato scontento che configura l’astensionismo come primo partito con un 50 per cento, un centrosinistra legalmente separato dopo quasi 30 anni di più o meno felice convivenza e una sinistra a sua volta divisa di fatto, richiamano situazioni europee da oltre 14mila chilometri a sud-ovest del Vecchio continente, dall’altra parte del pianeta, nella punta estrema del Sud America. È il selfie che i cileni fanno del proprio stesso Paese all’immediata vigilia delle elezioni presidenziali che sceglieranno anche il nuovo Parlamento e i consigli che governeranno le regioni. Un altro esempio di come l’economia globalizzata accentua le tensioni dei sistemi politici nazionali dell’Occidente, prescindendo sostanzialmente da diversità istituzionali e distanze geografiche.
Sconfitto Pinochet, il Cile era tornato alla storica suddivisione dell’elettorato in tre terzi: sinistra, centro, destra, ciascuno con un 30 per cento circa. Che però si misuravano riuniti in due schieramenti: centrodestra vs centrosinistra. Negli ultimi mesi la decomposizione di quest’ultima coalizione e il moltiplicarsi dei soggetti ha fatto saltare anche il sistema elettorale, che è diventato proporzionale. I concorrenti adesso sono otto. Vero che al secondo turno andranno soltanto i primi due, ma la frammentazione implica una dispersione significativa e comunque testimonia concretamente lo sfilacciarsi di una società certamente limitata nei numeri, ma nella sua storia contrapposta per grandi blocchi.
I pronostici sono a questo punto tutti per il candidato della destra, che presenta un identikit mainstream: l’imprenditore milionario Sebastian Piñera, (in foto), uno degli uomini più ricchi del Cile, peraltro già capo di Stato dal 2010 al 2014. Almeno al primo turno, quando pur in vantaggio su tutti gli altri ben difficilmente riuscirà a passare. Ed è pensando al ballottaggio fissato per il 7 dicembre ch’egli promette moderazione, autodefinendosi espressione di una “destra moderna”, a cui spera dia apporto anche gran parte dell’elettorato democristiano in passato sostenitore del centrosinistra. Anche in questo Cile cresciuto essenzialmente con i governi progressisti fino a diventare un modello internazionalmente celebrato, a decidere la sfida sarà così la classe media urbana.
Al suo secondo mandato, Michelle Bachelet è arrivata 4 anni fa sostenuta da un forte prestigio personale e da un favore popolare che era un invito ad approfondire le riforme per farla finita una volta per tutte con la pesante eredità della dittatura militare di Pinochet e meglio sostanziare la democrazia. Ha creduto di soddisfare il suo progetto affrontando il potenziamento della scuola pubblica, la depenalizzazione dell’aborto, rendendo più progressivo il sistema fiscale, creando un apposito ministero per accompagnare il riconoscimento culturale e sociale dei popoli originari, degli indios, come vengono più spesso indicati i primi abitanti del continente incontrato da Colombo e colonizzato dalla Conquista spagnola. Neppure i suoi l’hanno seguita compatti.
Ostacoli politici e limiti di bilancio hanno trattenuto più o meno a metà strada tutte queste iniziative. E come spesso accade in certi casi, all’insoddisfazione degli avversari per quanto è stato fatto si è sommata quella dei sostenitori per ciò che non è stato possibile fare. Democristiani e liberalsocialisti (il cui candidato, l’ex presidente Ricardo Lagos, prestigioso e competente ma non immacolato, è stato respinto alle primarie in favore di un outsider) rimproverano Bachelet di aver preferito l’alleanza con i comunisti. Ma per la presidente la questione centrale è un’altra e ha carattere strategico: il paese non potrà svilupparsi ulteriormente senza prima realizzare una piena democrazia dei diritti. Ciò implica una diversa ripartizione delle risorse rispetto al passato. Di qui scontri e fratture.