A poco più di due secoli dalla nascita, il poliedrico ed eccentrico intellettuale americano Henry David Thoreau (Concord, 12 luglio 1817- Concord, 6 maggio 1872), non cessa di stupire per la preveggenza delle sue analisi in tema di diritti civili e per l’attualità del suo ecologismo “spirituale”, si potrebbe dire, lontano dall’irenismo di certo ambientalismo contemporaneo.
Filosofo, scrittore, poeta e, a suo modo, “ideologo” della disobbedienza civile, Thoreau ha influenzato innumerevoli statisti e pensatori trascinandoli nel fiume impetuoso di un naturalismo nel quale i diritti civili avevano un posto preminente nella considerazione che l’essere umano è essenzialmente un elemento (o soggetto) naturale e, dunque, partecipe del cosmo in una visione trascendentale, come pure credeva uno dei suoi ispiratori, Ralph Waldo Emerson.
Per Thoreau il rispetto della natura e l’immedesimazione in essa non è un processo volto al banale raggiungimento “estatico”, ma una pratica filosofica dalla quale è possibile pervenire a uno stato di benessere fisico e spirituale.
Nei suoi due libri più importanti, Walden, una sorta di autobiografia legata al mondo della foresta e alla pratica dell’esplorazione boschiva che coincide con quella interiore, e Disobbedienza civile, nel quale sostiene la “moralità” della negazione del rispetto acritico delle leggi quando esse contrastano con il diritto naturale e la coscienza umana, prepara, in una certa misura, la reazione alla modernità da un lato incentrata sul dominio totalizzante delle macchine ed dall’altro allo statalismo quando diventa oppressivo.
In questo saggio, che è stato “illuminante” anche per uomini assai miti come il Mahatma Gandhi, tra l’altro si legge: “Tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione, cioè il diritto di rifiutare l’obbedienza, e di opporre resistenza a un governo, nel caso in cui la sua tirannia o la sua inefficienza siano gravi e intollerabili”. Gli avrebbe fatto eco, in Italia, centocinquant’anni dopo, uno dei più grandi politologi del secolo scorso, Gianfranco Miglio, che, presentando la Disobbedienza civile, scrisse: “I popoli liberi e meglio ordinati sono quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi: che non temono di impugnare le decisioni dei loro governanti, ma che tornano poi, ogni volta a rifondare, con più solida persuasione, l’ordinamento in cui vivono”.
Insomma, la “disobbedienza civile” come “valvola di scarico” per non abituarsi a soggiacere passivamente alle ingiustizie ed ai soprusi, soprattutto in materia fiscale che era il punto di partenza di Thoreau che profittò della guerra degli Stati Uniti al Messico per rifiutarsi di sostenerla economicamente e, dunque, evadendo le tasse, fino a eccettuare la reclusione che tale decisione comportava.
Scritto nel 1849, Disobbedienza civile è il condensato del pensiero politico di Thoreau al quale poco interessava l’aspetto meramente materiale dell’esistenza al punto di concepire e vivere una vita assai frugale a stretto contatto con la natura, fortemente legato al principio della reincarnazione mutuato dalle filosofie orientali, non meno che da scuole di pensiero occidentali attraverso le quali cercò una connessione con l’elementarità nella quale ravvisava l’essenza della continuità della creazione di tutti gli esseri viventi, nessuno escluso.
Walden, al riguardo, è un libro emblematico e assai suggestivo. Angosciato dalla perdita prematura del fratello, Thoreau mise in pratica gli ideali nei quali si era immerso e per rendersi meno “vulnerabile” e più coerente in ciò che aveva spiritualmente maturato, per sperimentare una vita semplice ed opporsi fattivamente al sistema (svincolarsi dagli obblighi e dalle costrizioni innaturali e abbandonare il mondo che lo condizionava attraverso la materialità della tecnica invasiva che aveva snaturato il lavoro).
Nel 1845 si stabilì in una piccola capanna da lui stesso costruita presso il lago di Walden (Walden Pond), nel Massachusetts, dove si dedicò a tempo pieno alla scrittura e all’osservazione della natura, esercizio intenso e gratificante dal quale venne fuori il suo libro più appassionato che insieme con altri, dello stesso tenore, forma la trama del volume Tra cielo e terra, un’antologia a cura di Stefano Paolucci, edita da Piano B (pp.174, € 14), nel quale è condensato il “naturalismo” di Thoreau.
Protagonisti assoluti del libro sono gli uccelli nel loro elemento naturale: il bosco, la montagna, la campagna incontaminata. L’autore si sente come loro: libero e solo, avventuroso e distante, incantato e ricco della gioia di partecipare ad un rito senza fine: la nascita ed il tramonto delle stagioni attraverso il “protagonismo” degli uccelli. “Un silenzio notevole regna sempre nei boschi, e il loro significato sembra sempre sul punto di maturare in espressione. Ma i boschi, ahimè, non si danno fretta! Il passero campestre, il menestrello delle ore serene della Natura, cosa nota di ozi immensi e di immensi spazi di tempo”. Il lirismo di queste parole è la prova di un’animo trasfigurato dalla intensità con la quale viveva della natura, nel caso in specie dall’osservazione degli uccelli come la poiana codarossa che resta lontana dalle città per preservare la sua indole selvaggia, dunque primitiva, dunque elementare e perciò vera: ciò che Thoreau aspirava a conquistare. E dagli uccelli, compagni di solitudine, lo scrittore trae la convinzione che lo stato selvatico è una forma di civiltà diversa dalla nostra.
Thoreau non si limita a constare il volo degli uccelli, per concludere che lo stato di natura è preferibile alla società degli umani. Aggiunge, con parole che non possono lasciarci indifferenti, la sua adesione ad una visione della vita che fuoriesce dal “cattiverio” delle convenzioni. Leggiamo: “Odio i musei: nulla grava di più sul mio spirito. Sono le catacombe della natura. Un verde germoglio primaverile, l’amento di un salice, il fioco trillo di un uccello migratore basterebbero da soli a rimettere il mondo in piedi”. Parole che un secolo dopo, ad altre latitudini, il più grande filosofo del Novecento, non meno amante dei boschi ed abitante nella Selva Nera come rifugio estremo, Martin Heidegger, avrebbe condiviso ed esaltato nella sua opera e nel richiamo ad una classicità che dalla natura suggeva la linfa che l’animava.
Ma Thoreau non si limitava a scrutare il volo degli uccelli: la natura, in qualche modo, voleva “possederla”. Sempre Paolucci, per Piano B, ha messo insieme i pensieri dello scrittore americano sotto il titolo Camminare (pp.127, € 14). È un libro che invoglia perfino i più sedentari ad intraprendere cammini mai immaginati. Perché camminare è un’attività dello spirito prima che del corpo. Ci si muove con l’anima e con la mente e soltanto strumentalmente con le gambe. “Mi allarmo – si legge in Camminare – quando mi succede di accorgermi di aver camminato per un miglio solamente con il corpo, senza essere presente con lo spirito. Nella mia passeggiata pomeridiana vorrei dimenticare tutte le mie occupazioni del mattino e i miei obblighi verso la società. (…) Quello che desidero quando cammino è ritornare in me, riacquistare i sensi. Che senso ha restare nel bosco, se sto pensando a qualcosa che sta fuori dal bosco?”.
È proprio così. L’arte di camminare è connessa all’apprezzamento della natura. Soltanto in essa riusciamo a ritrovare a noi stessi, fuggendo il rumore, il nauseante odore della modernità, lo spaesamento del quale siamo vittime. Thoreau l’aveva capito, e disobbedì alla sua maniera alle convenzioni. Walden , tanto poter dire, ci mise due anni per scriverlo, osservando gli uccelli e camminando nelle foreste; riappropriandosi insomma di se stesso scoprendo una semplice verità: “Noi apparteniamo alla comunità”. Una consapevolezza che si può attingere soltanto considerandoci parte della natura, tra cielo e terra, percorrendo i sentieri dell’esistenza alla ricerca di una libertà interiore che nessun gadget può offrirci a meno di non votarci alla menzogna.