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Negoziati in Corea, così Trump rilancia ancora (anche con Seul)

Il presidente americano Donald Trump vuole essere il dealer centrale sul dossier nordcoreano. L’idea di fondo con cui il presidente Trump s’è da sempre approcciato al dossier nordcoreano è quella di creare uno spazio di collaborazione/confronto con la Cina e di intesa/competizione con i partner statunitensi, elementi da utilizzare come leva per questioni di più diretto interesse interno americano, come quelle commerciali.

Per costruirsi questo ruolo ha giocato con le armi cercando di forzare gli avversari cinesi, fino ad organizzare un clamoroso faccia a faccia con il satrapo di Pyongyang, Kim Jong-un, che dovrebbe aver luogo a fine maggio; e contemporaneamente ha chiesto cooperazione completa agli alleati.

Scavalcato dall’anticipo con cui Xi Jinping ha voluto muovere Pechino di traverso e convocare il satellite-Kim – per la Cina globale è inaccettabile farsi sfuggire il bandolo della questione coreana –, ora la Casa Bianca cerca la leva con Seul. Giovedì, dopo poche ore dall’annuncio che il vertice intra-coreano di altissimo livello a cui sarà presente il leader del regime del Nord e il presidente dialogante del Sud, Moon Jae-in, si terrà il 27 aprile, Trump è entrato a gamba tesa sull’accordo di libero scambio che gli Stati Uniti stanno chiudendo con i sudcoreani.

Due giorni fa lo definiva “great”, ma adesso minaccia che potrebbe “lasciarlo in sospeso sino a dopo il raggiungimento di un accordo con la Corea del Nord”,come ha detto durante un comizio America First in Ohio. Un’uscita che serve sia a mantenere la presa con i suoi elettori, a cui ha ricordato che non sta mollando di un centimetro sull’obiettivo dichiarato in campagna elettorale di minimizzare i disavanzi commerciali degli Stati Uniti – sia con i rivali come la Cina, sia con gli alleati che si approfittano dell’America – nell’ottica della protezione dell’economia Stars&Stripes; ma quella dichiarazione serve anche per mandare un messaggio a Seul.

Il senso è evidente: al Palazzo Blu siede un presidente che non ha per niente empatia con Trump, e il dossier nordcoreano fa da cartina tornasole. Per esempio: nei giorni in cui i giornali americani facevano uscire le indiscrezioni sulla possibilità dell’azione bloody nose pensata da Washington (l’attacco militare con cui servire un jab a Pyongyang che l’avrebbe lasciata spiazzata e inerme), Moon apriva al Nord in modo inatteso, chiedendo di unire gli sforzi sotto una stessa bandiera durante le Olimpiadi invernali di Pyeongchang, e invitando alla cerimonia d’apertura una delegazione nordcoreana di alto livello, accolta tra simboli, sorrisi e onori.

Distanze che sembravano infinite, ma poi, vista l’apparente disponibilità di Kim, Trump s’è dovuto allineare su quella traiettoria, e anzi – da artista del deal – ha segnato il colpo profondo. Quando Seul gli ha fatto sapere che il regime nordcoreano sarebbe stato pronto a un vis-a-vis, il presidente americano ha subito accettato – sembra che pure i più intimi collaboratori gli avessero proposto di traccheggiare, ma si sa che il presidente gioca d’istinto (e forse, d’altronde, dopo mesi di retorica guerresca finalizzata a spaventare Kim, non avrebbe certamente potuto tirarsi indietro da un incontro).

Comunque la Casa Bianca non ha modificato visioni: pochi giorni fa, su Twitter, Trump ha plaudito all’incontro tra Kim e Xi, ringraziando il presidente cinese per averlo informato repentinamente (altra dichiarazione necessario: cosa altro avrebbe potuto fare, indispettirsi pubblicamente per la mossa sulla via della pace giocata d’anticipo da Pechino?), ma ha anche sottolineato che questo sistema diplomatico che si è creato intorno alla Corea del Nord non dovrà modificare la postura severa prima di ottenere risultati.

Ossia: Trump vuole guidare il network dei negoziati, anche per assicurarsi che mentre si intavolano le discussioni non si ceda niente sulle sanzioni applicate al Nord per il programma atomico. Non prima di ottenere riscontri diretti sulla bontà delle intenzioni di denuclearizzazione espresse da Kim.

Da Seul non sono arrivate reazioni istituzionali sull’uscita trumpiana in Ohio. Il Korea Herald ha scritto che Trump starebbe anche suggerendo che vincolando l’accordo a un accordo per la Pace nella penisola coreana, “un obiettivo cui Seul tiene moltissimo”, Washington potrebbe riuscire a strappare alla Corea del Sud condizioni ancor più favorevoli sul piano economico e commerciale.

Il rapporto con Seul è uno dei pallini di Trump (influenzato anche dalle relazioni personali tra i due leader): mesi fa per esempio, ai tempi del dispiegamento del sistema Thaad in Corea del Sud, quando ancora si preferiva parlare la lingua delle armi piuttosto che quella delle feluche, il presidente americano chiese a Moon di pagare il conto per la protezione offertagli da Washington.

Mercoledì, il segretario al Commercio americano, il trumpianissimo Wilbur Ross, aveva dichiarato che con Seul era in “fase di ultimazione un memorandum d’intesa con robuste disposizioni che proibiscono la svalutazione competitiva e la manipolazione del tasso di cambio” won-dollaro, ma il ministero delle Finanze sudcoreano aveva smentito che i negoziati commerciali con Washington stavano girando attorno al currency cap (il vincolo di svalutazione è questione di sovranità, ma per Trump sarebbe una garanzia che Seul non muova la propria politica monetaria per favorire le proprie esportazioni: il Tesoro statunitense stima che il governo sudcoreano abbia venduto won per 4,9 miliardi di dollari sul mercato valutario tra luglio 2016 e giugno 2017, indebolendo così la propria valuta per favorire l’export).

L’intesa di massima raggiunta nell’ultima settimana con Seul per Washington è molto importante: innanzitutto sarebbe il primo risultato concreto che l’amministrazione americana potrebbe raggiungere sul piano commerciale (a cui Trump tiene molto), e per questo potrebbe diventare un esempio su cui basarsi per altre intese. In un’analisi, la Nikkei Review (tra le migliori pubblicazioni al mondo sul fronte economico-finanziario), fa notare che se si dovesse portare dietro la questione monetaria, sarebbe un unicum e dimostrerebbe che gli Stati Uniti hanno ancora il potere di negoziare accordi a proprio vantaggio, oltretutto ascoltando le richieste di alcuni settori economici americani – su tutti quello dell’automotive, da cui vengono diversi elettori trumpiani – che da tempo chiedono provvedimenti del genere.

 


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