Nel 1932 Oswald Spengler non votò per Hindenburg, ma per Hitler, anche se lo giudicava volgare. Lo incontrò nel 1933 e dopo una lunga discussione con lui, concluse che la Germania non aveva bisogno di un “tenore eroico (“Heldentenor“, tenore drammatico), ma di un vero eroe (“Held“)”. Ed oltre a criticare le tesi razziste di Alfred Rosenberg, rifiutò l’invito di Joseph Goebbels, perorato anche dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth, di tenere discorsi alla gioventù tedesca. Tuttavia nel 1933 Spengler venne chiamato a far parte dell’Accademia di Germania. E scrisse Jahre der Entscheidung, (Anni della decisione), accolto malissimo negli ambienti nazionalsocialisti, ma – e non è un caso – esaltato in Italia da Benito Mussolini che rimase colpito dalla nitidezza dell’analisi e dalle prospettive che in esso il pensatore tedesco intravedeva. È il libro più politico di Spengler nel quale la critica al liberalismo si accompagna alla critica spietata al razzismo biologico e all’antisemitismo, che contribuì a consolidare la sua fama, mentre gli procurò altri nemici.
In tre mesi furono vendute centomila copie del volume, ma ciò non impedì che da alcuni ambienti nazisti si levassero contro Spengler accuse assai vili e pretestuose per alcune allusioni sulla recente presa di potere di Hitler. Al contrario, in Italia, Benito Mussolini che lo accolse con entusiasmo, nello stesso torno di tempo lo segnalò dalle colonne del “Popolo d’Italia” e ne commissionò la traduzione al germanista Vittorio Beonio Brocchieri.
Alle infamanti menzogne propagandistiche diffuse in patria dai nazisti, Spengler non replicò. I suoi pensieri navigavano verso mondi lontani, distanti dalle contingenze, in un estuario post-politico. Erano volti alla preistoria, alla riscoperta della tradizione primordiale dell’uomo europeo per il quale ed intorno al quale avrebbe voluto elaborare una compiuta filosofia. Le Urfragen, il lascito (Nachlass) raccolto dall’amico Anton Koktanek, rivelano tale intenzione. E intanto, in Anni della decisione, ammoniva sul tempo nuovo che sarebbe venuto, sull’ “èra fatale” che si stava preparando: la rivoluzione mondiale bianca, la rivoluzione mondiale di colore, l’avvento dei “nuovi Cesari”, il tutto “nutrito” dagli “ideali deboli”, vale a dire l’ideologia e la religione delle lacrime.
Un testo di grande forza evocativa e di straordinaria analisi interpretativa che non poteva piacere a piccoli propagandisti spacciatisi per “filosofi” come Alfred Baumler, alle cui intemperanze nei confronti di Spengler (qualcuno le chiamò minacce) si deve forse una concausa che provocò la crisi cardiaca che uccise lo studioso, come venne ipotizzato all’epoca. Ma perché in Germania si leggeva questa opera politica di Spengler con diffidenza, contrarietà o aperta ostilità da parte nei circoli nazionalisti più vicini al nuovo regime? La brutale violenza con la quale Hitler si era sbarazzato di alcune delle personalità più eminenti del fronte conservatore che non apprezzavano i suoi metodi e, tra gli altri, molti di loro erano amiche di Spengler, come Edgar Jung, von Kahr, Willy Schmidt, non potevano lasciare indifferente Spengler come molti altri intellettuali nazional-conservatori. Jung aveva addirittura scritto che Spengler era il massimo scrittore politico della Germania: conoscendo la corte di Hitler, c’era di che preoccuparsi. Ma lui non si diede pena per se stesso e, come Gottfried Benn, imboccò la strada della cosiddetta “migrazione interna” che gli avrebbe guadagnato l’inimicizia delle gerarchie del regime, ma anche di molta parte della gioventù tedesca.
Questa circostanza gli procurò molte amarezze. Di fronte ad un libro come Jahre der Entscheidung, che nulla concedeva all’hitlerismo, per quanto nelle prime righe avesse scritto che nessuno più di lui aveva desiderato i rivolgimenti dell’inverno del 1933, e non era un testo propagandistico, ma un tentativo di alimentare la consapevolezza rivoluzionario-conservatrice su ciò che sarebbe inevitabilmente avvenuto in Europa ed in Occidente, le giovani generazioni opposero un netto rifiuto a seguire chi prendeva così platealmente le distanze dal nazionalsocialismo, abbagliate com’erano dalle sontuose, vuote e retoriche ritualità di una grottesca finta religiosità neopagana, fumettistica ed estranea alla tradizione più ancestrale tedesca. Per i giovani l’ “anno decisivo” si era già compiuto; non ce ne sarebbero stati altri: l’orizzonte della Germania e dell’Europa escludeva qualunque altra prospettiva. Il mito del Dritte Reich – formula coniata da Arthur Moeller van den Bruck, suicida nel 1925 e tutt’altro che tenero nei confronti dei primi miliziani della Rivoluzione che non avrebbe visto compiersi, non meno critico tuttavia sul piano filosofico verso Spengler come attestato da un piccolo saggio appena pubblicato in Italia da Oaks, Spengler contro Spengler, – assorbiva totalmente i giovani tedeschi perché potessero preoccuparsi degli orizzonti politici spengleriani. Perfino la sorella di Nietzsche, Elisabeth, gli manifestò il proprio rammarico per le posizioni “poco nazionalsocialiste” contenute in Anni della decisione, mentre Günther -Grundel, autore de La missione della nuova generazione, si disse indignato perché nel libro il nome di Hitler non era citato neppure una volta “mostrando l’autore di ritenerlo una quantité négligeable”.
Eppure Spengler aveva scritto – ma non certo per captare la benevolenza dei “nuovi arrivati” – di aver odiato “fin dal primo momento la sporca rivoluzione del 1918 come un tradimento della parte peggiore del nostro popolo contro quella combattiva e costruttiva, e non ancora logora che era sorta nel 1914 perché poteva e doveva avere un avvenire”. E nel contempo indicava la nuova strada alla Germania, la sola che un aristocratico poteva immaginare: il “prussianesimo” quale ripresa dei valori e delle antiche virtù germaniche, vale a dire “ciò che abbiamo nel sangue dai nostri padri, idee senza parole, è l’unica cosa che garantisce la solidità dell’avvenire (…). Abbiamo bisogno di una educazione di stile prussiano, quale era nel 1870 e nel 1919 e quale nel fondo delle nostre anime dorme come costante possibilità. Questa educazione è attuabile soltanto attraverso l’esempio vivo e l’autodisciplina morale di una classe dirigente; non con una gran quantità di parole o con la costrizione. Per poter servire un’idea dobbiamo dominare noi stessi, essere preparati per convinzione a sacrifici interiori”.
Parole per tutti e per nessuno. Alle menzogne spesso infamanti, Spengler non reagì in alcun modo, men che meno accampando titoli o ricorrendo a discutibili protezioni che pure gli venivano offerte. I suoi pensieri erano rivolti altrove: veleggiavano verso mondi lontani, distanti dalle contingenze, in un estuario post-politico. Erano volti alla preistoria, alla riscoperta delle origini primordiali dell’uomo europeo: una cosmologia che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto concretizzarsi in una nuova filosofia della storia. Non ne ebbe il tempo, ma le Urfragen ci fanno capire quale fosse il suo progetto. Sarebbe stato il nucleo centrale della seconda parte progettata di Anni della decisione? Non è dato saperlo. È, comunque, ipotizzabile, anche considerando come l’opera si conclude, che la prima parte, quella che conosciamo, ne prevedeva uno sviluppo ulteriore proprio nel senso appena indicato: il superamento della fase politica e della diagnosi delle contingenze per indicare uno scenario nuovo dopo la fine dei cesarismi e linevitabile implosione del mondo della tecnica, il più totalitario dei mondi. Un indispensabile ritorno alle origini, dunque.
Anton M. Koktanek, in Oswald Spengler in seiner Zeit (1968), definisce Jahre der Entscheidung “l’unico manifesto dell’opposizione conservatrice interna apparso durante il terzo Reich”. La violenta e circostanziata critica alla modernità, della quale il nazionalsocialismo è un aspetto o addirittura una “degenerazione”, è il rilievo più interessante contenuto nel saggio che vede la luce nel clima effervescente dei primi anni Trenta. L’occasione gli venne data da una conferenza tenuta ad Amburgo nel 1930 dal titolo significativo: “La Germania in pericolo” che venne poco compreso ed indusse Spengler a precisare meglio il suo pensiero con uno studio sistematico che, nonostante le polemiche appena ricordate, dai lettori più accorti venne ritenuto una sorta di manuale per fronteggiare l’avvenire, ed anche questo non piacque ai nazisti.
La Rivoluzione mondiale bianca e la Rivoluzione mondiale di colore avrebbero minato le fondamenta dell’ordine occidentale. Per l’insipienza degli occidentali stessi, il primato dell’economia sulla politica e sui valori dello spirito, non meno che sulla cultura dei popoli europei in primo luogo avrebbe esercitato una pressione tale da convincere l’Occidente stesso ad abdicare al proprio destino. Nelle mani dei nuovi Cesari sarebbe stato l’avvenire, ma questi avrebbero avuto la forza necessaria per ricondurre ad un principio ordinatore ciò che si stava disfacendo? (…)
Egli si illudeva che “nuovi Cesari” potessero capovolgere lo stato delle cose. Ma, dopo gli esiti del secondo conflitto mondiale, che Spengler non ha potuto vedere e che tuttavia prevedeva proprio come il dispiegarsi di una “grande alleanza” contro l’Europa, ma non con la complicità di una parte dell’Occidente schierato contro se stesso (per quanto si fidasse poco dell’Inghilterra), chi potrà guidare la reazione al fine di ristabilire l’ordine snaturato?
Alla domanda non c’è risposta. I Cesari si sono dissolti. I destini dell’umanità sono nelle mani dei possessori di quel potere tecnocratico e finanziario che ha distrutto il primato della politica soggiogando le masse e attirandole nel regno delle illusioni dove il dominio della volontà dei pochi che costruiscono le loro fortune sull’impotenza di coloro che si erano illuse di vincere le loro “rivoluzioni” quella bianca e quella di colore: entrambi ammansite dal denaro e dal mito del progresso che crea nuovi bisogni. Gli occidentali, ed in particolare gli europei, di fronte all’emergere di “nuovi poteri” hanno preferito accettare una tranquillità di tipo fellah, un’assicurazione contro il Destino in ogni suo aspetto, Un comodo fingersi morti alla vita del pericolo, accontentandosi della garanzia dello happy end di un’esistenza vuota ed anonima. Insomma, il risultato della sconfitta dell’Occidente non lo si può nascondere. e maggiormente, prende vigore e s’impone autoritariamente quando le anime stanche ed invecchiate sentono il bisogno di rifugiarsi in qualcosa che dia loro fiducia, le addormenti nell’oblio.
Spengler si leva decisamente contro tali “malattie dello spirito” sostenendo a chiare lettere che la storia è fondamentalmente tragica, squassata dal destino e che come tale, senza farsi illusioni, bisogna viverla, pena l’uscita dalla stria stessa. È questa la “vocazione”, immodificabile, dell’ uomo faustiano, al quale frequentemente, anche nella sua opera politica, Spengler fa riferimento avvertendo che la lotta è la più antica realtà della vita, è la storia stessa e neppure il pacifista più incallito e sprovveduto riuscirà mai ad estirparla dal comportamento umano.
Anni della decisione è un libro all’apparenza “disperato”, in realtà le sue pagine sono attraversate da un appello costante alla ripresa di una lotta per sopravvivenza, a prescindere dal destino dei Cesari stessi. “Storia futura – si legge verso la conclusione del libro – s’innalza molto al di sopra delle necessità economiche e degli ideali di politica interna. Ora perfino le forze elementari della vita prendono parte alla lotta che è per il tutto o per il niente.” Purtroppo per lui e per l’Europa i Cesari che vedeva venire non avrebbero “gettato i dadi della storia” e sarebbero rimasti senza legioni. Un terreno labile, quello sul quale Spengler vedeva muoversi gli attori del suo tempo. Labile e fragile del quale non colse a pieno la catastrofe una volta che quel terreno sarebbe franato. Eppure dalla sua analisi, la visione della crisi esce rafforzata e perfino l’immagine dei Cesari ne risulta una tragica componente. (…)