La Russia “continuerà” ad agire cercando di minare le democrazie occidentali nell’immediato futuro, anche nel 2018 e nel 2019: secco, chiaro, preciso, non richiederebbe nient’altro da aggiungere la dichiarazione del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, durante un’intervista alla trumpiana Fox News. “È nostra responsabilità come leader degli Stati Uniti fare tutto il possibile per impedire che interferiscano non solo nelle nostre elezioni, ma anche in maniera più ampia”.
È una linea programmatica, alla quale non servirebbe nemmeno aggiungere la puntualizzazione successiva: il presidente Donald Trump, dice il segretario, ha”ben presente quello che la Russia ha fatto in occasioni delle elezioni presidenziali del 2016 e ha dato a ognuno di noi il potere per assicurare che questo non accada più nel 2018 e nel 2020″, ossia alle midterms di novembre e alle prossime presidenziali. Ma la precisazione serve, sia come mossa politica – la presidenza ci tiene a dire che l’interferenza del 2016 è avvenuta in un periodo in cui allo Studio Ovale sedeva il detestato predecessore, ma non si ripeterà sotto questa amministrazione –, sia, soprattutto, perché il presidente sta piroettando troppo sulla questione Russia.
Dopo il faccia a faccia finlandese con Vladimir Putin, la linea seguita da Trump non è stata proprio retta e sicura: ha cambiato posizione varie volte sull’interferenza russa e su altre faccende collegate, è sembrato smentire il proprio apparato di intelligence. Che però negli ultimi due giorni ha sfruttato il palcoscenico intellettuale e specialistico dell’Aspen Security Forum per mandare messaggi secchi: sia il capo dell’Fbi che quello della National Intelligence (un repubblicano storico, ex congressista e nominato da Trump stesso) hanno ricordato a Trump che i russi sono ancora una minaccia, che invitare Putin alla Casa Bianca è una questione delicata, che aperture potrebbero anche arrivare, ma prima ci sono diverse cose da sistemare. E sulla Fox Pompeo è passato radente sull’argomento (attese parole simili durante i programmi di approfondimento televisivi del fine settimana).
In queste ultime ore un tema caldo tra i contenziosi irrisolti è tornato a essere la crisi in Ucraina. Nel 2014 i russi hanno annesso una penisola ucraina, la Crimea, dopo aver invaso il paese di militari senza insegne, e da lì è iniziato il sistema sanzionatorio internazionale contro Mosca usato per evitare una risposta militare a un’invasione armata di un altro stato sovrano; nel frattempo i russi hanno dato assistenza ai ribelli separatisti della regione orientale che hanno combattuto Kiev, dichiarando l’indipendenza in due province, con armi e consulenza fornite dalla Russia; una di quelle armi, un missile terra-aria Buk, sarebbe responsabile dell’abbattimento di un volo di linea che passava sopra quei territori, nel quale sono morte 298 persone, e per il quale un’indagine olandese incolpa apertamente Mosca di ciò che è successo; nel 2015 la Russia ha firmato un accordo internazionale di deconflicting nel territorio semi-neutro di Minsk, che però s’è sempre rifiutata di implementare. Questa ricostruzione non troverebbe conferme da parte del vicepremier italiano, che in un’intervista al Washington Post ha provato a riportare i fatti in un modo talmente alterato e filo-russo che il consiglio editoriale del giornale ha deciso di inserire una postilla per chiarire: “Fact-checkers indipendenti non hanno trovato prove per queste accuse”.
L’Ucraina è tornata di interesse per l’asse Mosca-Washington a causa di due faccende. Primo: tra i pochissimi contenuti filtrati dal faccia a faccia di Helsinki, ce n’è uno che riguarda una proposta putiniana (detto per indicare quel modo con cui il presidente russo forza le situazioni a suo vantaggio mascherandole da passaggi naturali) per risolvere la crisi: un referendum. È stato Putin a far uscire la cosa verso i media, dicendo però di aver accettato di non divulgare dettagli in modo da permettere a Trump di ragionarci meglio. Ma la Bloomberg ha una fonte russa che spiega: si tratta di lasciar decidere alla popolazione del Donbas, la regione controllata dai separatisti filo-russi; sarebbero i cittadini a scegliere se stare con l’Ucraina o con la Russia, mandandoli a votare sotto il monitoraggio internazionale. I rischi sarebbero enormi, perché l’influenza russa nell’area permetterebbe di aggirare i controlli, rendere impossibile la vita agli osservatori delle istituzioni terze, e il referendum rischierebbe di essere truccato. Ma soprattutto significherebbe stracciare una postura che dura da anni, condivisa dagli Stati Uniti e dagli alleati europei: quella vincolata agli accordi di Minsk, che prevedono tra le varie cose che le due province separatiste orientali ritornino sotto l’amministrazione di Kiev, creando successivamente dei piani per maggiore autonomia. Già nel 2014, quando le province di Donetsk e Lugansk dichiararono la propria indipendenza da Kiev con un referendum fu il dipartimento di Stato che adesso guida Pompeo – ai tempi c’era John Kerry – a dichiarare che gli Stati Uniti non accettavano i risultati di quella votazione perché alterati dalla Russia.
A Kiev tremano, rivedono lo specchio di quanto successo in Crimea (quando si votò con gli omini verdi, i soldati dell’invasione russa, che presidiavano strade e seggi);, spaventati anche da una dichiarazione avventata di Trump che una decina di giorni fa ha definito legittima l’annessione perché decisa dai cittadini (con un referendum farsa) che per altro “parlano russo”, dunque sono russi, dice il Prez. Il secondo motivo per cui il dossier che divide Russia e Stati Uniti si sta riscaldando riguarda la presenza nel Mar Nero di 50 Marines della “Echo Company”, Secondo Battaglione, 25esimo Reggimento, con sede a Harrisburg, Pennsylvania. I soldati americani sono stati lì per l’esercitazione congiunta “Sea Breeze 2018” con gli ucraini e altri contingenti Nato, che secondo la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, è stata un tentativo “di mostrare i muscoli” che “difficilmente aiuterà a stabilizzare la situazione in questa regione” i cui “pacifici villaggi […] ogni giorno subiscono i saccheggi dei militari ucraini”. La parole della Zakharova sono state riprese oggi da Marine Times, il sito specialistico del corpo, e hanno velocemente iniziato a circolare tra i corridoi di Washington perché contenevano una minaccia chiara: “I Paesi che coinvolgono l’Ucraina in pericolosi war-game con munizioni reali e accusano costantemente la Russia di minacciare la stabilità regionale saranno ritenuti responsabili di eventuali conseguenze negative”.
Una dichiarazione simile, a giugno, ha accompagnato la decisione americana di spostare un ulteriore contingente di Marines in Norvegia: la Russia soffre la sindrome di accerchiamento; una dottrina strategica russa dice che le attività offensive di Mosca verso l’Europa sono legittima conseguenza dell’allargamento della Nato verso est.
(Foto: Marine Corps, la Echo Company durante l’esercitazione See Breeze 2018)