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Così le piroette di Trump spiazzano l’intelligence Usa

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Ieri, sul palco dell’Aspen Security Forum, la giornalista Andrea Mitchell ha letto un foglio che gli avevano passato in quel momento all’uomo che stava intervistando, Dan Coats: la Press Secretary della Casa Bianca ha annunciato che il presidente Donald Trump ha invitato a Washington Vladimir Putin per questo autunno, c’era scritto. L’anchor della Nbc e caporedattrice esteri con un pacco di esperienza ha scandito le parole con tono pacato sicura di spiazzare il suo interlocutore, e infatti il Director della National Intelligence (Dni) è scoppiato a ridere e le ha chiesto: “Say that again?”, dillo ancora, come si fa per una cosa stramba che non hai mai sentito prima. A quel punto Mitchell ha iniziato, sorridendo, a ripetere la frase e Coats ha aggiunto “Ti ho sentito [bene]?”: “Sì, sì!” dice lei e lui aggiunge “Ok. Sarà speciale!!”

Il siparietto andato live davanti a dozzine di persone qualificate tra il pubblico della conferenza internazionale sulla sicurezza organizzata annualmente in Colorado dall’Aspen Institute (più quelle che seguivano in streaming gli eventi, più i media di mezzo mondo) è piuttosto significativo. Il direttore dell’ufficio governativo che coordina tutte le agenzie di intelligence americane non sapeva che da lì a pochi mesi (si pensa a settembre, facendo coincidere il viaggio con la presenza di Putin al Palazzo di Vetro di New York) il presidente di un paese che per dottrina strategica gli Stati Uniti considerano una “potenza rivale” avrebbe messo piede nello Studio Ovale – in un viaggio la cui organizzazione Trump l’avrebbe affidata a John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale.

Si potrebbe dire anche che a Washington sta per arrivare il presidente del paese che, secondo l’intera Intelligence Community che Coats guida, ha studiato un piano per interferire nelle elezioni presidenziali americane e sta continuamente ingerendo nelle vita pubblica statunitense attraverso operazioni di guerra informativa (o ancora, magari: il presidente di un paese che, in quelle stesse ore in cui la Casa Bianca twittava l’invito, avallava la scelta del suo ministero degli Esteri di cambiare l’immagine del profilo Twitter istituzionale con quella di Maria Butina, una donna arrestata pochi giorni fa dall’Fbi perché considerata una spia che stava lavorando su un progetto con cui Mosca avrebbe cercato di creare connessioni con il mondo dei Repubblicani, e con Trump).

Poco prima di ricevere quella notizia, Coats stava dicendo a Mitchell che “lui fa solo il suo lavoro” – “Gliel’ho detto al presidente già al nostro terzo incontro: ci saranno volte in cui ti porterò notizie che riterrai sgradevoli, ma sappi che non saranno mai politicizzate e saranno il meglio di quello che la nostra Intelligence Community può produrre”. Coats parlava di una specie di rimprovero pubblico che aveva fatto il giorno precedente a Trump. Mentre il presidente saltava da una linea all’altra sulla Russia, il capo dei servizi segreti americani diceva senza mezzi termini: “Siamo stati chiari a proposito delle nostre valutazioni sul meddling russo”.

Meddling” è quella parola che gli americani usano per descrivere il grande piano con cui i russi, tra il 2015 e il 2016, hanno cercato di alterare il normale corso delle elezioni presidenziali statunitensi, probabilmente almeno in parte riuscendoci: gli attacchi informatici contro i Democratici e quelli contro i sistemi di voto; la diffusione attraverso operazioni di info-war sofisticate (tipo il trolling sistemico) di contenuti alterati e fake news; probabile qualche contatto diretto come quelli di Butina.

Ieri, a un certo punto, la giornalista della Nbc ha anche chiesto a Coats se lui fosse a conoscenza di cosa si erano detti Trump e Putin durante il loro incontro; a Helsinki, i due leader hanno parlato solo alla presenza di un interprete, una questione che già prima dell’incontro aveva creato preoccupazione a Washington. Coats ha risposto di non sapere cosa si fossero detti, “io non so cos’è successo in quel meeting”: ed è un altro commento di una potenza mostruosa, se si pensa al ruolo del Dni e al tenore degli argomenti trattati (per esempio, girano rumors che Putin abbia proposto a Trump di chiamare un referendum in Ucraina per risolvere la crisi che i separatisti finanziati da Mosca hanno creato, dopo che la Russia ha annesso la Crimea: non si sa cos’abbia risposto l’americano).

Di sicuro Trump e Putin hanno parlato di quella che fino a ieri il Prez definiva una “incredible offer“: l’offerta incredibile riguardava una specie di scambio tra spie, Mosca dava l’opportunità al procuratore speciale che sta curando il Russiagate di interrogare – su suolo russo e alla presenza di agenti russi – i 12 membri del servizio segreto militare russo (Gru) che ha incriminato con l’accusa di essere una componente operativa del meddling. In cambio Putin aveva chiesto di poter parlare con altrettanti americani: tra questi l’ex ambasciatore Michael McFaul che Putin detesta (e l’americano non perde occasione social per ricambiare) e accusa, in maniera del tutto infondata, di aver lavorato per rovesciarlo.

Poi con Bill Browder, finanziere dalla cui vicenda è iniziato il percorso legislativo che nel 2012 ha portato Capitol Hill a votare il “Magnitsky Act”, con cui adesso gli americani possono pubblicamente limitare l’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini russi accusati di violazione dei diritti umani e congelarne gli assetti finanziari; Browder è accusato da Mosca di non aver pagato le tasse in Russia e il Cremlino dice che con quei soldi ha finanziato la campagna di Clinton — però pare sia una via per incolparlo di un qualcosa a causa del lavoro fatto per la Magnitsky, tant’è che sulla lista di persone con cui Putin vorrebbe parlare c’è anche Kyle Parker, ex aide congressuale che ha redatto da solo la legge. Ora Browder vive nascosto da qualche parte in Gran Bretagna, per ovvie ragioni di sicurezza.

Ieri Trump è anche tornato indietro sull’offerta, rifiutandola di fatto (sì, quella che il giorno prima era incredibile, ndr). Quasi contemporaneamente, il Senato americano lo aveva in pratica costretto: con una risoluzione votata 98 contro zero – ossia completamente bipartisan – i senatori hanno chiesto al governo degli Stati Uniti di rifiutarsi di rendere disponibili funzionari Usa per gli interrogatori da parte degli uomini di Putin. Prima avevano avvisato la Casa Bianca su come sarebbero andate le cose in aula, e a quel punto la portavoce è dovuta uscire in anticipo di qualche minuto per evitare figuraccia – ma pare che, secondo una dichiarazione fatta mercoledì dalla sua portavoce, Trump stesse davvero valutando la possibilità dello scambio. Un’offerta che altri definivano “assurda e folle”, che avrebbe messo uomini dei servizi segreti russi a conoscenza di alcuni dettagli di un’inchiesta delicatissima su cui l’intelligence americana vorrebbe che il presidente prendesse una posizione più ferma (sempre da Aspen, il capo dell’Fbi aveva detto che lo scambio e soprattutto l’interrogatorio che i suoi uomini avrebbero dovuto fare in Russia “non è certamente in cima alle nostre tecniche d’investigazione”).

 

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