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Gazprom, South Stream e Tap. Cosa fa l’Italia nel risiko del gas?

Bessi, Ilva

Mercati energetici internazionali caratterizzati da continue turbolenze, concorrenza spietata, crescente globalizzazione degli scambi e obiettivi ambiziosi sul clima: l’industria del gas naturale appare alla ricerca di linee-guida per un futuro sviluppo. Spesso sentiamo affermare anche da parte di fonti autorevoli che tutta l’energia elettrica e il suo trasporto saranno prodotti con le rinnovabili e che non c’è nessuna necessità per nuovi volumi di gas.

Tuttavia, per il momento è vero il contrario in quanto la domanda di gas in Europa è in aumento: un esempio sono le esportazioni di Gazprom che nel periodo dal 1 gennaio al 30 novembre 2016 hanno raggiunto un picco di 162.7bn m ³ e continuano a crescere. E anche nella tabella Italia troviamo questo trend.

La posta in palio è sempre la stessa: la posizione dominante di fornitore – grazie a un solido cordone ombelicale – nel mercato del gas europeo in un contesto in cui il nord e il sud del Vecchio continente sono in contrapposizione per garantirsi un ruolo privilegiato come hub di approvvigionamento energetico. In questo campo, proprio questo mese la Corte di giustizia europea dovrà decidere se dare via libera ai piani di Gazprom, che progetta di far passare i flussi di gas tra Russia e Germania al di fuori dell’Ucraina per mezzo del Nordstream 2. A opporsi a questa prospettiva è in particolare la Polonia, in nome della “indipendenza energetica” della Ue.

E per il 3 marzo prossimo l’agenda della corte arbitrale della Camera di commercio internazionale di Parigi prevede l’udienza dell’arbitrato tra Saipem e Gazprom per risarcimento danni di ciò che resta del progetto South Stream. Se il South Stream è oggi relegato a un puro contenzioso legale, l’ipotesi di un tracciato verso il sud Europa, per bypassare l’Ucraina, grazie al Turkish Stream è, con l’avvenuta firma del contratto di costruzione per la seconda linea di sezione offshore del Turkish Stream, una certezza.

La società Turkish Stream ha ereditato la ragione sociale del congelato South Stream, ha in appalto la realizzazione del gasdotto ed è pronta a partire nel mese di maggio con la posa della prima linea del sea line di 900 km che è destinato a collegare le sponde russe e turche del Mar Nero. Di questo gasdotto, che avrà una portata di 15.75bn m ³/anno per singola linea e collegherà il terminal offload della Russia, vicino Anapa, con Kiyikoy sulla costa della Tracia turca sul Mar Nero, da cui il gas verrà poi trasportato verso la Turchia, ne abbiamo parlato proprio su Formiche.net.

In questo momento è interessante mettere in evidenza le incertezze su come proseguirà il gasdotto, una volta giunto in Turchia, con il suo potenziale di miliardi di mc/anno. E il dibattito sull’impiego della seconda linea riguarda ora esclusivamente la questione dell’utilizzo che ne sarà determinato. Gazprom e affiliate avranno il 100% di proprietà della sezione off-shore, mentre la linea onshore “alla frontiera fra la Repubblica di Turchia con i Paesi limitrofi” sarà una collaborazione al 50 per cento tra Gazprom e Botas (compagnia petrolifera turca). In pratica, il secondo tracciato seguirà la sezione onshore verso Luleburgaz per quindi proseguire per 130 km fino a Ipsala, al confine tra Turchia e Grecia. Il perché della scelta di Ipsala (dal lato turco della frontiera e di Kipoi nella parte greca) è che è il punto in cui la pipeline Tanap in tutta la Turchia si connetterebbe al Pipeline Trans-Adriatico, come espresso nel discorso alla conferenza dell’European Gas a Vienna a fine gennaio scorso dal vice presidente di Gazprom Alexander Medvedev.

Per farci un’idea di cosa succederà vale la pena leggere “Towards a Balkan gas hub: the interplay between pipeline gas, LNG and renewable energy in South Est Europe” – The Oxford institute for energy studies – dove si evidenzia come i progetti promossi da Gazprom sono giustificati dalla domanda esistente. Le previsioni in materia energetica della britannica BP prevedono un tasso di crescita annuo composto del fabbisogno di gas al 1,8% fino al 2035. In seno all’Ocse, questa crescita deriva dalla transizione a gas di carbone nella produzione di energia. Coerentemente con questo presupposto l’attività di approvvigionamento del gas sarà deviata da rotte esistenti (Ucraina) verso direttrici alternative per “un mercato di scambio nei Balcani” con l’obiettivo di terminare all’hub esistente centrale europea gas (CEGH) in Austria.

Dietro questo progetto c’è la consapevolezza che il gas naturale potrebbe competere e sostituire la lignite – la forma di carbone più inquinante – che è la risorsa che la fa da padrone nella produzione elettrica dell’area balcanica e rimane, in prospettiva degli obiettivi Cop21 e dell’Unione europea, un nemico per l’ambiente. Di conseguenza, l’industria della lignite si ridurrà entro i prossimi sei-otto anni che lasciano la regione con un enorme bisogno di nuova capacità di generazione elettrica. E non parliamo poi di come l’investimento proposto suscita aspettative di guadagni immediati in termini di occupazione, formazione del Pil e rivalutazione monetaria tra i governi degli Stati dai quali il gas dovrebbe transitare.

I progetti russi non si fermano alle linee di approvvigionamento, ma avanzano insieme a una politica di investimenti locali. Una notevole esempio è l’acquisizione da parte di GazpromNeft dell’industria petrolifera serba, comprese tutte le attività upstream gas e del petrolio. GazpromNeft quindi ha ampliato le sue attività oltre dalla Serbia alla Bosnia Herzegovina, dall’Ungheria alla Romania. E non solo nel settore energetico, ma nella presenza nella vita economica-sociale e quotidiana dell’area balcanica, come le sponsorizzazioni in campo sportivo.

Siamo certi di poterci permettere come Paese e come industria un ruolo di semplice spettatore nel gioco della ricerca di linee-guida per un futuro sviluppo del gas naturale? Due ipotesi di riflessione: la guerra degli ultimi anni contro la produzione nazionale di gas naturale, e la conseguente massiccia riduzione degli investimenti, ha avuto come esito una contrazione del 50 per cento, dai 18-20 miliardi di metri cubi di fine anni ‘90, ai 7 e 8 miliardi di metri cubi odierni. E sull’altra guerra, quella al gasdotto Tap, ci sono segnali inquietanti, come testimoniano le due bottiglie incendiarie lanciate contro gli uffici di Melendugno. E una risposta semplice: occorre rimettere al centro gli interessi nazionali. Con ottimismo e razionalità.

 


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