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A Charlottesville il diavolo ha chiesto l’anima dell’America

Bannon, siria, donald trump isis Corea

“Le consiglierei di guardarsi bene allo specchio & ricordarsi che a farla presidente sono stati gli Americani Bianchi non i sinistroidi radicali”. Tra le reazioni alla battaglia di Charlottesville, quella più chiara è utile è probabilmente questo tweet di David Duke, uno dei leader del Ku Klux Klan, che rivendica apertamente il contributo dell’estrema destra alla vittoria dell’immobiliarista newyorkese.

L’importanza del messaggio non sta tanto nel suo rispondere alla debole presa di distanza di Trump quanto nell’ufficializzare ciò che finora era stato negato, cioè che nelle posizioni di Trump si riconosceva non solo una pittoresca alleanza di complottisti, affaristi senza scrupoli, anti ambientalisti e isolazionisti, ma anche un buon numero di razzisti. Nel marzo 2016, lo aveva detto Saturday Night Live con un finto spot firmato “Razzisti per Trump”, nel quale una serie di “americani veri” a suo favore si rivelavano essere nazisti, membri del KKK, suprematisti bianchi e islamofobi.

Come nel proverbio napoletano “Scherzando scherzando, Pulcinella dice la verità”, la tragedia di Charlottesville ha trasformato la satira in profezia. Soprattutto per l’incapacità di Trump di prendere subito con decisione le distanze dai razzisti, scrivendo enfaticamente che le responsabilità stavano “da molte parti. Da molte parti”. Un’ipocrita equidistanza il cui vero senso era dato dal rifiuto di rispondere alle domande dei cronisti, abbandonando la sala in modo tanto plateale da attirarsi il plauso del Daily Stormer, organo dei nazisti americani.

La musica è cambiata solo ventiquattrore dopo. Tutti i principali esponenti repubblicani hanno condannato esplicitamente gli estremisti di destra, forse perché l’arresto di James Alex Fields ha reso impossibile ignorare la realtà di un ventenne infatuato di Hitler e del nazismo, giunto dall’Ohio per partecipare alla protesta contro la rimozione della statua del generale confederato Robert E. Lee.

Si potrebbe discutere all’infinito se Lee sia un simbolo della malvagità schiavista del Sud o un rispettabile esponente della sua aristocrazia. Ci si potrebbe chiedere perché non abbia destato altrettanto scalpore la decisione presa in febbraio dal rettore di Yale di cambiare il nome di uno dei suoi dodici collegi residenziali da John C. Calhoun – un senatore della South Carolina che riteneva la schiavitù “fondamentalmente buona” e contrastò sempre i tentativi di limitarla – a Grace Murray Hopper, una donna laureatasi nel 1934 e diventata poi contrammiraglio. Ma sarebbero discussioni oziose.

La chiave di lettura sta tutta nel tweet di Duke: “Le consiglierei di guardarsi bene allo specchio & ricordarsi che a farla presidente sono stati gli Americani Bianchi non i sinistroidi radicali”. L’elezione di Trump non è folklore o fisiologica alternanza, ma il risultato di un disegno che mirava anche a sdoganare culture politiche che per circa mezzo secolo erano state marginalizzate ed escluse dal dibattito politico. Per comprenderlo, più che leggere bisogna vedere e sentire. Vedere sfilare i militanti del Klan, a viso scoperto, con le bandiere confederate. Vedere sfilare i nazisti con le loro bandiere e, peggio, con cartelli antisemiti. Vedere autoproclamate milizie sfilare armate di fucili. E sentirli proclamare di essere venuti a “riprendersi l’America” e invocare il nome di Trump.

Non è forse un caso che il 1° agosto il Dipartimento della Giustizia – guidato da Jeff Sessions, sotto attacco per non aver bloccato l’indagine sul Russiagate – abbia annunciato pubblicamente di voler esaminare se le politiche attive (affirmative action) per l’ammissione delle minoranze nelle università americane non costituiscano una discriminazione nei confronti dei bianchi. Posizione che ricalca, parola per parola, quella dei suprematisti bianchi e che rovescia oltre mezzo secolo di prassi e regole.

E forse non è una caso che lo scontro sia avvenuto a Charlottesville, una cittadina deliziosa, sede della prestigiosa università della Virginia. È una città del Sud, ma in uno stato colto e ricco, capace di eleggere una governatrice democratica, confinante con la capitale Washington, che ha deciso di fare i conti con un passato nel quale i nobili ideali di Thomas Jefferson devono misurarsi con i suoi meno luminosi comportamenti. Un uomo in grado di proclamare nella Dichiarazione d’Indipendenza l’uguaglianza degli uomini e di possedere decine di schiavi, di proclamare la ricerca della felicità e di avere una relazione clandestina con una sua schiava. Se di queste contraddizioni il Sud abbonda e fatica a liberarsi, la manifestazione di Charlottesville rappresentava il tentativo esplicito di riportare le lancette dell’orologio indietro di 60 anni e la mappa politica all’Alabama razzista contro la quale combatté Martin Luther King.

Che sia chiaro: Trump non ha inventato i razzisti, i neonazisti e le milizie, così come non ha inventato Putin. Su consiglio di Bannon, li ha però corteggiati e li ha immessi nel discorso politico, illudendosi di controllarli. Un patto con il diavolo, insomma, un po’ come i conservatori tedeschi con Hitler, tanto per rimanere in tema di nazisti. Ma il diavolo, che non si accontenta delle vittorie simboliche, si è presentato a Charlottesville per chiedere di essere pagato: con l’anima dell’America.

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