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Ai repubblicani non basterà un tea

Sulle elezioni presidenziali del 2012 pesa l’incognita della rielezione di Barak Obama. Raramente, nella storia dell’ultimo secolo, un presidente in carica che aspira al secondo mandato quadriennale (come prevede la Costituzione) viene bocciato. Nel dopoguerra è accaduto solo due volte: con il democratico Jimmy Carter nel novembre 1979 quando è stato sconfitto da Ronald Reagan, e con il repubblicano George H.W. Bush sconfitto nel novembre 1991 da Bill Clinton a causa della presenza di un forte terzo candidato nella persona del conservatore populista Ross Perot.
 
Questa volta, però, Obama rischia la rielezione per una serie di circostanze che gli storici della presidenza ritengono influenti. La principale riguarda il divario prodottosi tra le aspettative e i risultati. Dopo il disastro emerso a causa dell’Iraq durante i mandati di G.W. Bush (2000-2008), il giovane senatore nero raccolse un consenso come segno della svolta negli umori di una larga parte della popolazione americana che nutriva la speranza di risalire la china in cui era piombata l’America di fronte alla comunità internazionale. Le capacità oratorie di Obama entusiasmarono gli americani che, all’indomani dell’insediamento alla Casa Bianca nel gennaio 2008, indirizzarono una larga fiducia al nuovo presidente: un consenso che tuttavia è andato diminuendo fino a scendere al di sotto della soglia del 50% man mano che la politica dell’Amministrazione non dava i risultati promessi.
 
La principale ragione delle diminuite speranze nell’Amministrazione Obama è dovuta alla perdurante crisi economica e sociale scoppiata nel 2008 ed acuitasi nell’ultimo anno di fronte alla quale il presidente non ha saputo reagire con sufficiente determinazione, almeno secondo quel che la maggioranza del ceto medio e medio basso si aspettava. Oggi, l’indice di disoccupazione tra il 9 e il 10% con punte molto alte nei settori non bianchi (neri e latinos) della popolazione esprime il dato più vistoso della crisi sociale. E gli “indignati”, che si manifestano con sempre maggiore aggressività e diffusione in molte città americane, come nel caso di Occupy Wall Street a New York, sono la spia di un malessere diffuso che da rivolta sociale può trasformarsi in movimento politico in grado di influenzare anche l’esito elettorale. Rispetto a questa nuova “sinistra populista”, Obama finora non ha preso alcuna posizione netta, né in un senso né nell’altro, ragione per cui la presidenza viene giudicata indecisa ed oscillante.
 
Se questa è l’incognita che pesa sulla rielezione del presidente democratico, tanto che nel dibattito pubblico si parla con insistenza del ruolo di supporto che potrebbero avere i Clinton – sia l’ex-presidente Bill, sia il segretario di Stato Hillary, che godono entrambi di grande popolarità soprattutto tra la minoranza ispanica –, anche le prospettive dei repubblicani sono tutt’altro che chiare. È vero che alle elezioni di midterm i candidati repubblicani hanno ottenuto un grande successo sì da conquistare la maggioranza nella House of representatives, ma nel 2010 si trattava pur sempre di competizioni che avvenivano all’interno dei singoli collegi elettorali in cui i fattori locali e i candidati giocavano un ruolo determinante.
 
Alle presidenziali, invece, è determinante la personalità, la leadership e la capacità di comunicativa del candidato unico; e finora i repubblicani non hanno trovato alcun personaggio in grado di affrontare una sfida nazionale: né Mitt Romney, già governatore del Massachusetts che ha tentato le presidenziali altre volte senza successo; né il nero Herman Cain, imprenditore e banchiere soggetto ad attacchi perché vulnerabile sotto molti aspetti tra cui le molestie sessuali; né l’ex governatore del Texas Rick Perry, partito con un notevole slancio ma già in netta retrocessione. Pesano poi sul Gran old party i condizionamenti dei tea party che non sono un movimento nazionale ma un insieme di gruppi e di atteggiamenti di destra populistica influenti a livello locale senza una reale leadership nazionale.
 
Questo significativo settore politico dell’elettorato che fa riferimento al Partito repubblicano ne rappresenta però un fattore, al tempo stesso, di forza e di debolezza. Forza, in quanto capace di mobilitare in termini militanti porzioni di popolazione che in passato sono state anche lontane dalle urne e che, se presenti, incidono sui risultati del voto soprattutto in alcuni Stati dell’ovest e del sud. Debolezza, in quanto le elezioni presidenziali si vincono tradizionalmente al centro, e qualsiasi candidato che si presenta anche indirettamente con l’etichetta dei tea party rischia di alienare il voto repubblicano moderato, un consenso che può essere definito “centrista” e che da sempre risulta determinante nella corsa alla Casa Bianca.


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