Non è stata una sorpresa. Una squadra che vince tutte le partite, convincendo peraltro chiunque anche quando mostra qualche comprensibile incertezza (contro l’Algeria, per esempio), non può che assicurarsi il primato. La Germania non è un capriccio del destino, né il frutto dell’improvvisazione di qualcuno. E’ un complesso calcistico formatosi nel corso degli anni con un’applicazione quasi maniacale. Molti piazzamenti prestigiosi e un europeo negli ultimi ventiquattro anni, cioè a dire dall’ultima vittoria mondiale all’Olimpico di Roma, proprio contro l’Argentina. Ma è stato dal 2006, in particolare, che la rifondazione ha cominciato a girare a pieno ritmo. La rifondazione del calcio tedesco, intendo, al punto che i suoi talenti migliori, che sarebbero diventati i campioni di oggi, non hanno più avuto bisogno di emigrare per cercarsi posti al sole, ma il sole se lo sono portato in Germania dove la sinergia tra i club e la federazione ha funzionato magnificamente: i tedeschi dominano, in condominio con la calante Spagna, il calcio europeo e da soli quello mondiale.
Importano ciò che è necessario: calciatori di gran qualità e si aprono ad esperienze nuove, come quella di Pep Guardiola al Bayern Monaco mixandole con le tradizionali direttrici incarnate da Joachim Lowe (che pure in anni ormai lontani era stato un innovatore allo Stoccarda) e, prima di lui, da Jurgen Kinsmann che adesso s’è messo in testa di “lanciare” il soccer negli Stati Uniti, ben al di là delle improvvisazioni del passato: i risultati gli stanno dando ragione.
Individualità spiccate, unitarietà di gioco, libertà di movimento nell’ambito di schemi variabili ma rigidamente applicati (è accaduto proprio nella finale, quando Lowe è stato costretto a cambiare due o tre volte il modulo per gli accidenti occorsi ad un paio di giocatori) hanno cambiato il volto di una Germania che conoscevamo efficace, micidiale perfino, ma ingessata. Adesso è veloce e spumeggiante quel tanto che basta per far dire a qualcuno che il calcio sudamericano si è trasferito al di là delle Alpi. No, il football tedesco è un’altra cosa; ha una sua identità. Se c’è chi lo vuole copiare si accomodi pure, ma i presupposti per farlo devono essere primariamente “politici”, vale a dire una organizzazione del movimento calcistico rivoluzionaria nella quale venga innanzitutto contemplato lo spettacolo come elemento culturale, dunque provvisto di tutti quegli accorgimenti che ne rendono gradevole la fruibilità; poi il limite all’ingresso degli stranieri che ostacolano la crescita dei giovani talenti ed il relativo impegno da parte dei club ad investire nei vivai; infine la costruzione di una nazionale nella quale la meritocrazia in campo tenga dietro alla qualità dei comportamenti extra-calcistici. E ci sarebbe dell’altro, naturalmente, impossibile da elencare in questa sede.
Non c’è un modello tedesco, insomma: c’è un modello di serietà e di buon senso che tutti, ma in particolare nazionali di tradizione come l’italiana dovrebbero adottare al fine di rinnovare uno sport tra i più popolari del mondo che attrae un pubblico immenso e la cui unica ragione sociale non può essere il profitto da parte di una moltitudine di soggetti che hanno contribuito alla suo oggettiva decadenza.
Se la Germania ha fatto vedere il calcio migliore, in un torneo peraltro di livello oggettivamente modesto, dopo il Brasile che ha deluso al di là di ogni più pessimistica previsione, ci si attendeva qualcosa di meglio dall’Argentina. Ma questa nazionale è una squadra con eccellenti giocatori che s’incontrano tre o quattro volte l’anno, improvvisano, seguono schemi non collaudati ed appresi (quando li apprendono) in fretta, tra campionati e coppe continentali, e manca dell’uomo-squadra. Lionel Messi ha ampiamente dimostrato, peraltro dopo un’annata non felicissima a Barcellona, di non essere il trascinatore che s’immaginava. L’Albiceleste, pur praticando, come d’abitudine, un calcio redditizio ma non trascendentale (a differenza di quello brasiliano dell’età dell’oro), è sempre stata ricca di attaccanti sui quali fare affidamento: inutile riproporre l’elenco. Adesso ne è poverissima: Higuain, Palacio, lo stesso Messi (sembra uno che passeggia in attesa dell’occasione buona per tentare una giocata), il pur prodigo Lavezzi costretto a fare il tornante, un ruolo che lo affatica, lo sfianca, hanno mancato l’appuntamento con il gol (è la nazionale che ha segnato di meno) e, nella finale, con il gol facile: tanto il “Pipita” napoletano – che da mesi non sembra lo stesso – quanto il centravanti interista hanno mandato in fumo i sogni di gloria avendo al piede la palla più facile che si possa immaginare.
Messi, poi, non è uomo-squadra. Il nuovo Maradona deve ancora nascere. Il suo volto enigmatico simboleggia un amletismo incomprensibile. Ha toccato pochi palloni nel corso del torneo e soprattutto non ha impressionato gli avversari che in certi momenti si sono quasi disinteressati di lui, passeggiatore solitario, come se fosse estraneo a ciò che gli accadeva intorno. Messi, sia contro la Germania che in altri incontri, ha dimostrato di non sentirsi a proprio agio: lo vedemmo così anche quattro anni fa in Sud Africa. L’aria della nazionale, evidentemente, non gli fa bene: è uno straniero in patria, insomma, con tutte le attenuanti essendo cresciuto a Barcellona dove si è formato, come in un seminario, e l’aria argentina l’ha respirata poco.
Della potenza tedesca abbiamo detto quel che dovevamo dire nei giorni scorsi. Il calcio è soltanto un altro modo per affermare l’egemonia di una nazione. La Coppa del Mondo vale più del Pil quando si devono dare ad un popolo maggiori certezze. Il gol di Mario Goetze alla borsa dei sentimenti, delle emozioni, delle passioni collettive ha fatto crollare tutto ciò intorno a cui ci si affanna quotidianamente. L’esplosione di gioia del Maracanà non ha confini e non ha bandiere. E il calcio non finisce, come pure avevamo temuto. Se dio non è più brasiliano – inaccettabile metafora alla quale ci siamo retoricamente appoggiati – allora è di tutti. Come di tutti è l’aspirazione alla vittoria.