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La lezione non solo calcistica di Germania-Argentina. Il taccuino mundial di Gennaro Malgieri

Un calcio alla decadenza europea. Sottile aggressione all’irrilevanza cui la si vorrebbe condannare tanto per vendicarsi del suo redditizio rigore che impone a chi l’ostacola supplizi indicibilmente dolorosi. Presunzione di superiorità non smentita. Ed inconsolabile sentimento di rivalsa dopo realizzazioni misconosciute. Il football visto dalla Germania è la sintesi di una Weltanschauung apollinea e dionisiaca, al tempo stesso, giustificata da una volontà di potenza – geometrica, armoniosa, lirica – che non intende affermarsi sulle miserie economiche e sociali altrui, roba per un club ristretto anche se l’impatto è universale, ma più vastamente sull’universalità delle emozioni che scuotono inevitabilmente le élite mondiali di fronte al dispiegarsi di eventi di natura planetaria che non hanno confini di ceto e di appartenenza etnica, religiosa, culturale.

L’impressionante procedere della Germania calcistica verso un traguardo ben più importante dei tre acquisiti fin qui è determinata da una subliminale concezione estetica del potere alla quale il Mondiale brasiliano deve conferire il sigillo di una nuova egemonia che potrebbe essere letta come il sogno di trascinare la vecchia Europa verso il riscatto. È per questo che se dovesse avere la meglio sull’Argentina, come accadde nel 1990, in quella “notte magica” italiana, la storia si ripeterebbe moltiplicando l’evento all’inverosimile.

Allora, ventiquattro anni fa, a soli sette mesi dalla caduta del Muro, la Germania doveva dimostrare che un “nuovo inizio” era possibile, che la sua uscita dalla storia doveva ritenersi conclusa, che l’èra del “lavaggio del carattere” stava alle sue spalle. Una grande nazione voleva suggellare allora il trionfo della resistenza al decreto di espulsione dalla comunità delle nazioni. Il rigore realizzato, in extremis, da Andreas Brehme offrì a quella che ancora si chiamava Germania Ovest – ma per tutti era già la Germania, finalmente unita, libera, indipendente, forte ed ambiziosa, come avrebbe dimostrato alla fine di quello stesso anno quando si compì il destino auspicato, perseguito tenacemente fin alla catastrofe del 1945 – l’opportunità di farsi guardare ben oltre i recinti della politica dagli occhi ammirati del mondo che vedeva rinascere un popolo dalle macerie del suo lungo dopoguerra.

A dire la verità, già nel 1954, al Mondiale svizzero i tedeschi, che non vennero al torneo precedente in Brasile, guidati da Fritz Walter e allenati da Sepp Herberger, disputarono la finale contro la favoritissima Ungheria, che li aveva battuti 8-3 in una partita del primo turno, con una rimonta straordinaria. Infatti, dopo essere andati in svantaggio di ben due reti: la terza marcatura la mise a segno Helmut Rahn a sei minuti dal termine. L’incredibile successo, assolutamente imprevisto, passò alla storia come il “miracolo di Berna”, ed accese in Germania un’euforia considerata tra i fattori della ripresa economica del Paese.

Il calcio tedesco, dunque, è sempre stato qualcosa di più di un semplice fatto sportivo. Lo è a maggior ragione oggi davanti alla comunità internazionale come rappresentante di un Continente alla deriva rispetto al quale la nazionale di Müller, Klose, Ozil, Neur che si appresta a sfidare l’Argentina per il titolo mondiale ha il compito, non certo perseguito scientemente, di rappresentare la Germania come complesso unitario di forza. E, naturalmente, a qualificarsi come squadra che pratica il miglior football, sempre che Messi e compagni lo permettano.

L’incognita argentino accende i cuori di quanti non si rassegnano alla supremazia tedesca. E alla Pulce affidano speranze che, al momento, per quanto labili, sono le sole che possono essere coltivate. Dopo lo smacco brasiliano, ben più grave di quello subito nel 1950 (fu un episodio, non una tragedia calcistica programmata, a determinare la sconfitta dei carioca), su cui ha posto il timbro l’Olanda confezionando una vittoria fin troppo annunciata, al calcio sudamericano non resta appunto che l’Argentina.

Un ruolo che non le dispiace interpretare anche se alla vigilia immaginava, come tutti, che avrebbe conteso la Coppa del Mondo al Brasile, dimentico purtroppo della sua storia, dei suoi campioni, della magia del suo futebol.


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