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Caro Renzi, ascolti il Sud che vuole sviluppo e non retoriche vetero ambientaliste

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Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi sabato 13 settembre inaugura alla Fiera del Levante di Bari la 78° edizione della Campionaria e molti amministratori locali hanno preparato dossier contro l’approdo della Tap-Trans Adriatic Pipeline a San Foca di Melendugno, in provincia di Lecce – che ha appena ottenuto la valutazione di impatto ambientale – e contro le trivellazioni in Adriatico per sfruttarvi i giacimenti di petrolio e gas. Due scelte strategiche capaci di generare investimenti “a valle” che, invece, vengono sottovalutati quando non addirittura ignorati da coloro che si oppongono alla loro realizzazione in nome di una difesa degli ecosistemi, tutelabili al contrario con l’impiego di tecnologie avanzate e di best practices utilizzabili negli interventi prima ricordati.

Ma il Presidente Renzi sappia che esiste un’altra Puglia che, invece, quegli investimenti li sollecita nel pieno rispetto delle normative ambientali esistenti, ritenendoli utili a rilanciare interi comparti dell’industria regionale che sino all’inizio degli anni Duemila hanno avuto grande peso nell’economia pugliese, come ad esempio la costruzione a Taranto di grandi piattaforme off-shore realizzate dalla Belleli, poi purtroppo fallita, con la perdita di circa 3.000 posti di lavoro fra diretti e indotto.

Esistono in Italia riserve stimate di petrolio di 700 milioni di tonnellate: ai ritmi attuali di sfruttamento dei pozzi esistenti durerebbero per 50 anni. Nel momento in cui il Paese deve ridurre i costi delle importazioni energetiche e ha un disperato bisogno di rilanciare la sua crescita nei tempi più rapidi possibili, non bisognerebbe allora puntare al pieno utilizzo di queste risorse minerarie? E i permessi di coltivazione dei giacimenti alle compagnie che da tempo li attendono non andrebbero rilasciati, nel pieno rispetto delle norme che ne regolerebbero l’esercizio e con l’impiego di tecnologie e best practices utili a minimizzare se non ad azzerare il rischio di incidenti rilevanti nelle aree di estrazione? Il Governo lo ha previsto nel decreto ‘Sblocca Italia” proprio perché non dovremmo solo continuare a pagare, senza poterli ridurre, prezzi elevati per gli approvvigionamenti agli oligarchi russi, ai teocrati iraniani o alla Libia.

Per tali ragioni desta forte perplessità l’ostilità degli amministratori locali contro le trivellazioni in Adriatico che contrasta con quanto hanno recentemente deciso Croazia e Grecia che in Adriatico e nello Ionio, nelle proprie acque territoriali, hanno messo a bando internazionale le attività di prospezione e di coltivazione dei giacimenti già stimati, in stridente contrasto con quanto sinora proposto, sempre in Adriatico, dalle Autorità locali italiane che nei bacini prospicienti le nostre sponde stanno invece ostacolando in tutti i modi l’avvio di nuove trivellazioni. E’ appena il caso di ricordare inoltre che in Adriatico già da anni estraggono gas e petrolio piattaforme dell’Edison e dell’Eni, cosi come al largo della Sicilia sud-occidentale altre piattaforme delle stesse due aziende.

Ma deve restare un dialogo fra sordi quello fra gli amministratori locali e il Governo Renzi? E’ sperabile di no, anche perché un’accurata indagine pubblicata alcuni mesi orsono e condotta da Alberto Clò e Lisa Orlandi per conto del Centro Rie-Ricerche industriali ed energetiche di Bologna su incarico di Assomineraria ha evidenziato come in diverse aree del Paese, interessate da estrazioni di gas e petrolio, la loro coesistenza con agricoltura, pesca e turismo non solo è stata possibile, ma in molti casi ha portato a interazioni di successo. Lo studio fra l’altro è stato svolto attraverso: 1) l’analisi delle argomentazioni addotte dalle opposizioni territoriali contro le perforazioni; 2) l’indagine comparata a livello regionale dei comparti agricoltura, pesca e turismo per mettere in luce la presenza di eventuali dinamiche differenti fra aree interessate da attività estrattive e zone in cui esse non sono registrate; 3) l’esame di alcuni casi nazionali ed europei di gestione della coesistenza fra i settori prima ricordati e l’industria mineraria per individuare le migliori pratiche di convivenza e risolvere eventuali criticità nei loro rapporti.

Le conclusioni dello studio sono state le seguenti: a) non esiste alcuna comprovata correlazione negativa fra attività mineraria e settori agricoltura, pesca e turismo che manifestano tendenze similari in tutte le regioni indipendentemente dalla presenza o meno di estrazioni; b) i tre comparti potrebbero cogliere dall’esercizio dell’industria energetica opportunità di sviluppo sinora non sfruttate; c) capacità di ascolto e trasparenza costituiscono le direttrici su cui l’industria degli idrocarburi deve investire per un rapporto di fiducia con le popolazioni; d) l’adozione di interventi mirati a favore di agricoltura, pesca e turismo dimostrerebbe, come del resto accade altrove, l’impegno da parte dell’industria oil&gas verso uno sviluppo sostenibile ed equilibrato e una positiva coesistenza fra attività e produzioni agricole, della pesca e dell’industria dell’ospitalità.

Lo sfruttamento del petrolio estraibile in ambito nazionale on e off-shore rafforzerebbe peraltro tutto l’indotto industriale del settore: aziende impiantistiche, elettromeccaniche, navalmeccaniche – per i giacimenti sottomarini – industrie produttrici di pompe e valvole per l’energia come GEOil&Gas-Nuovo Pignone, alcune delle quali localizzate anche nel Sud, a Bari, Brindisi, Taranto, Priolo, Gela, o che nelle regioni meridionali potrebbero trovare convenienza ad insediarsi. Si osservi al riguardo quello che da anni sta accadendo in Basilicata, nella sostanziale disattenzione dei grandi media: mentre si amplia con nuovi pozzi l’estrazione in Val d’Agri da parte dell’Eni, con il potenziamento del Centro Oli di Viggiano – da dove poi il greggio prelavorato giunge con oleodotto alla sua raffineria di Taranto – si preparano le estrazioni nell’altro grande polo estrattivo della Total a Corleto Perticara ove dovrebbero entrare in esercizio nel 2016 i pozzi locali con l’avviamento di un secondo Centro Oli, la cui costruzione è stata già avviata, e con una concessione nella quale sono entrati i giapponesi della Mitsui. Anche il petrolio di Corleto Perticara dovrà poi giungere a Taranto ove è prevista la costruzione di impianti di stoccaggio (il progetto Tempa Rossa) e nuove infrastrutture portuali con un impiego di 300 milioni di euro.

Gli investimenti complessivi già avviati e previsti per i prossimi anni nelle attività dei due poli estrattivi lucani ammontano a circa 3 miliardi di euro, con un indotto occupazionale – fra quello delle imprese direttamente impegnate a supporto delle estrazioni e aziende invece dell’indotto di secondo e terzo livello – che ormai supera le 3.000 persone, molte delle quali altamente qualificate: l’indotto occupazionale petrolifero in Basilicata costituisce ormai la seconda fabbrica della regione, dopo la Sata della FCA (Fiat Chrysler Automobiles) di Melfi. Si aggiunga che aumenterebbero le possibilità di impiego per geologi, ingegneri minerari, ingegneri meccanici e gestionali, chimici industriali.

Allora, possiamo permetterci in un momento come l’attuale di ignorare o peggio di ostacolare lo sfruttamento di queste risorse a causa di resistenze ambientaliste? Se ne raccolgano le sollecitazioni all’impiego di tecnologie e pratiche estrattive ecocompatibili e con tutte le procedure di vigilanza ecologica che è possibile già oggi imporre alle imprese impegnate sui pozzi, ma non si sottovalutino queste riserve petrolifere che sono preziosissime.

Lo stesso dicasi per i giacimenti già accertati di gas di cui anche l’Adriatico meridionale – dopo quello centro-settentrionale in acque nazionali e croate – è ricco. Bisogna tutelare le attività turistiche, si afferma da parte di chi osteggia le estrazioni. Pienamente d’accordo: ma per anni non si è estratto gas al largo della Romagna che resta una delle mete turistiche più trendy d’Europa? Forse gli amministratori e gli abitanti di Rimini e della Riviera romagnola sono meno sensibili alle problematiche ambientali di quelli del Gargano e del Salento? E a Ravenna e in zone limitrofe non è nato un distretto navalmeccanico dell’off-shore fra i maggiori per numero di imprese, addetti e fatturato del Mediterraneo? E poi, si sono forse verificati nel corso degli anni incidenti in mare che ne hanno devastato irreversibilmente larghi tratti?

Federico Pirro – Università di Bari – Centro studi Confindustria Puglia

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