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A cosa è servito l’incontro tra Renzi e i sindacati?

I leader sindacali avrebbero fatto bene a presentarsi a Palazzo Chigi dopo aver consumato un’abbondante colazione in modo da rispondere ‘’no, grazie’’ quando Pier Matteo Renzi Tambroni, ricevendoli nella Sala Verde, alla presenza del ministro Giuliano Poletti, avrebbe chiesto loro se gradivano un caffè e magari anche un cornetto. Così avrebbero potuto ottimizzare, senza perdite di tempo, l’oretta a disposizione per affrontare dei temi su ognuno dei quali occorrerebbe svolgere un laborioso negoziato.

L’incontro sarà servito a mettere nero su bianco un’agenda e un probabile calendario di massima, ‘’un po’ per celia, un po’ per non morir’’ (come canta Madame Butterfly all’apice della sua sindrome d’abbandono). Peraltro, questo premier-ragazzino tratta delicati problemi politici, economici e sociali come se dovesse scambiare delle figurine di una nuova collezione Panini.

I giornali hanno raccontato che Renzi sarebbe disposto a rinunciare alla riforma dell’articolo 18 in cambio del superamento del contratto nazionale per fare posto alla contrattazione di prossimità. Non si comprende la ratio di uno scambio siffatto, anche perché operazioni di tale portata non si fanno per legge o per decreto, ma incentivando sul piano fiscale e contributivo – in maniera strutturale e con risorse adeguate – le quote di retribuzione corrispondenti ad una migliore produttività e qualità del lavoro, sulla base di un percorso già ampiamente collaudato nella passata legislatura.

Se poi occorresse fare di più, le parti sociali dovrebbero soltanto togliere l’embargo (archiviando il patto scellerato sottoscritto nel settembre di quello stesso anno per compiacere la Cgil) in cui hanno confinato le opzioni derogatorie che l’articolo 8 della legge n. 148 del 2011 potrebbe consentire alla contrattazione decentrata conferendole peraltro un’estensione di carattere generale.

Nell’incontro si sarà parlato di questioni importanti, ma tutto sommato marginali nella vita reale del Paese ed anche nell’ambito stesso delle relazioni industriali, che, per fortuna, continuano a funzionare.

Cominciamo dal tema della rappresentanza/rappresentatività. Senza farla troppo lunga e ripercorrere la storia dal 1948 (quando è entrata in vigore, con la Costituzione, il ‘’convitato di pietra’’ dell’articolo 39 che è nello stesso tempo inapplicabile per tanti motivi, ma in grado di impedire una regolamentazione differente perché non conforme al dettato costituzionale) fino ai nostri giorni, chi scrive è convinto che le parti sociali – specie dopo i recenti accordi interconfederali – abbiano trovato delle soluzioni che nella normalità dei casi hanno risolto i problemi (i contratti di lavoro continuano, in linea di massima ad essere rinnovati in modo unitario e praticamente in assenza di scioperi), tranne che nella categoria dei metalmeccanici, dove non ci sono sortilegi maligni, ma soltanto la scomoda ed imbarazzante presenza di un gruppo dirigente (quello della Fiom) non disposto a stare alle regole, siano esse contrattuali oggi, legislative domani.

Per cui, fino a quando la Cgil non si deciderà a commissariare la federazione dei metalmeccanici (come si faceva una volta, in via di fatto, quando i dirigenti erano inadeguati), stipulare accordi o fare leggi sulla rappresentanza sarà soltanto tempo perso. Questa problematica, infatti, è una specie di parabola del figlio prodigo a sfondo sindacale. Tutti corrono dietro a Maurizio Landini, pronti ad uccidere e a cucinare il vitello grasso, ma il leader dei metalmeccanici tira diritto sulla strada dello sfascio.

Si sarà parlato, poi, di salario minimo che – dicono i sostenitori – esiste in ben 21 Paesi europei a cui dobbiamo adeguarci. Bene, purchè si sappia che non sarà una misura soltanto di tutela dei lavoratori, ma di sostanziale flessibilità. L’istituzione del salario minimo contribuirà a destrutturare, infatti, l’assetto della contrattazione nazionale di categoria (a cui si è sempre riferita la giurisprudenza consolidata nelle situazioni in cui ha ritenuto di dover applicare quanto disposto – in termini di trattamento minimo – l’articolo 36 Cost.).

Introdurre il principio del salario minimo significa incamminarsi sulla esperienza tedesca dei mini-jobs o su quella americana dei mac-jobs, perché, per definizione, il salario minimo è fissato ad un livello inferiore rispetto a quello della retribuzione tabellare prevista dai contratti collettivi. Quanto al tfr in busta paga, tra gli inventori dell’acqua calda si è aggiunto anche il Ncd che si è limitato a chiederne la volontarietà. Il fatto è che la sola quota di tfr che ora non ha una ‘’mission’’ è quella detenuta nei bilanci delle imprese con meno di 50 dipendenti.

Come la mettiamo con questo dato di fatto? Come potrà Renzi portare a termine questa operazione da ultima spiaggia, senza penalizzare le PMI? Sulla luna non ci si può arrivare in bicicletta.

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